

“La storia di AA e come nacque il Grande Libro”
Conferenza di Bill Wilson
*Fort Worth, Texas – 1954*

“Credo di essere qui stasera per un discorso sulle 12 Tradizioni di AA. Ma sapete come sono gli alcolisti, come le donne: hanno il privilegio – o almeno si prendono il privilegio – di cambiare idea! Non farò alcun maledetto discorso del genere! Per un’occasione così festosa, penso che le Tradizioni dalla 1 alla 12 sarebbero un po’ troppo cupe, potrebbero annoiarvi un po’. A proposito di Tradizioni, quando furono scritte per la prima volta nel 1945 o 1946 come linee guida provvisorie per aiutarci a restare uniti e funzionare, nessuno vi prestò attenzione, tranne qualche ‘testadura’ che mi scrisse chiedendomi: ‘Ma che diavolo sono?’
Nessuno vi diede la minima importanza. Ma, poco a poco, mentre queste Tradizioni si diffondevano e noi avevamo le nostre baruffe nel club, i nostri piccoli dissapori, questa e quella difficoltà , si scoprì che le Tradizioni riflettevano davvero l’esperienza ed erano principi guida. Così, presero piede sempre di più, fino a oggi, quando il tipico nuovo arrivato in AA capisce subito di cosa si tratta, in che tipo di organizzazione sia davvero capitato e da quali principi sono governati il suo gruppo e AA nel suo insieme.
“Ma, come dicevo, al diavolo tutto questo! Vorrei invece raccontarvi qualche storia – una serie di storie, per l’esattezza – che ruotano attorno alla creazione della nostra vecchia bibbia di AA. E ogni volta che sento chiamarla così, mi viene un brivido, perché i ragazzi che la misero insieme non erano per niente dei santi! Credo che alcuni di noi alcolisti abbiano l’idea che quei vecchi pionieri andassero in giro con aureole luminose e lunghe tonache, tutti pieni di dolcezza e saggezza. Oh sì, quanto erano illuminati! Ma aspettate che vi racconti com’è andata davvero. Direi che la storia del libro cominciò nel salotto di Doc e Annie Smith…”
Come sapete, arrivai lì nell’estate del ’35, e un piccolo gruppo cominciò a prendere forma. Diedi una mano a Smithy per un po’, e poi lui fondò il primo gruppo AA al mondo. E, come accade con tutti i nuovi gruppi, all’inizio fu quasi tutto un fallimento. Ma ogni tanto, qualcuno vedeva la luce e si faceva un passo avanti.
Io, coccolato dalla sorte, tornai a New York, dove si formò un gruppo un po’ più esperto. E quando arrivammo al 1937, la cosa era già arrivata fino a Cleveland e cominciava a espandersi a sud da New York. Ma in quegli anni, credevamo ancora di volare alla cieca – ogni gruppo era davvero una candela tremolante, che poteva spegnersi da un momento all’altro.
Così, in quel pomeriggio di fine autunno del 1937, Smithy ed io stavamo parlando nel suo salotto, con Anne seduta lì accanto, quando decidemmo di fare un conteggio. Quante persone erano riuscite a rimanere sobrie? Ad Akron, a New York, forse qualcuna a Cleveland? Per quanto tempo erano rimaste sobrie? E quando facemmo la somma totale, venne fuori una manciata di casi – non so, forse 35 o 40 al massimo.Aver trascorso abbastanza tempo su casi davvero disperati di alcolismo, ci diede un idea del significato di quei piccoli numeri.
Bob ed io comprendemmo per la prima volta che questa cosa stava per funzionare. Che Dio, nella Sua provvidenza e misericordia, aveva fatto brillare una nuova luce nelle oscure caverne dove noi e i nostri simili avevamo vissuto – e dove milioni ancora si trovavano. Non potrò mai dimenticare l’esaltazione e l’euforia che ci pervase entrambi.
Mentre sedevamo felici a parlare e riflettere, realizzammo che sì, una ventina di ubriachi erano sobri, ma ci erano voluti tre lunghi anni. C’erano stati innumerevoli fallimenti, e aveva richiesto tanto tempo solo per far smettere di bere questa manciata di persone. Come poteva questa manciata portare il suo messaggio a tutti quelli che ancora non sapevano? Non tutti gli alcolisti del mondo potevano venire ad Akron o New York.
Ma come potevamo trasmettere il nostro messaggio a loro, e con quali mezzi? Forse avremmo potuto rivolgerci ai veterani di ogni gruppo – il che significava praticamente tutti – per raccogliere una somma di denaro (il denaro di qualcun altro, naturalmente) e dirgli: “Prenditi un anno sabbatico dal lavoro, se ne hai uno, e vai in Kentucky, Omaha, Chicago, San Francisco, Los Angeles e ovunque sia necessario. Dedica un anno a questa causa e avvia un gruppo”.
A quel punto era già evidente che stavano per cacciarci dall’ospedale cittadino di Akron per far posto a gente con gambe rotte e fegati malconci; che gli ospedali non erano troppo contenti di noi. Probabilmente cercavamo di gestire i loro affari più del dovuto, e per di più, gli ubriachi tendevano a fare casino di notte, creando altri inconvenienti non da poco.
Diventò chiaro che, visto che noi alcolisti eravamo creature poco piacevoli, avremmo avuto bisogno di un’intera catena di ospedali. E quando quest’idea mi balenò in mente, mi sembrò ottima – del resto, venivo da Wall Street, dal mondo delle promozioni finanziarie, e ricordavo le fortune che si erano accumulate non appena qualcuno aveva pensato alle catene: farmacie, negozi di alimentari, empori.
Quella sera, io e Bob dicemmo al gruppo che il successo era ormai a portata di mano, che questa cosa poteva davvero espandersi all’infinito, che una nuova luce brillava nel nostro mondo oscuro. Ma come poteva questa luce riflettersi e trasmettersi senza distorsioni?
A quel punto, mi passarono la parola. Ed essendo un venditore, mi misi subito a lavorare all’idea delle “ubriacatoie” ( Le “ubriacatoie” (drunk tanks) erano reparti di detenzione per ubriachi nelle stazioni di polizia. Bill sfrutta il termine con ironia per parlare di centri di recupero senza finanziamenti.) e dei sussidi da reperire per i volontari. (Ero piuttosto al verde, in quel periodo).
Toccammo il tema del libro. La coscienza del gruppo era composta da 18 uomini probi e leali… e questi “probi e leali”, si capiva subito, erano dannatamente scettici sull’intera faccenda. Quasi all’unisono, intonarono: “Manteniamola semplice: questo porterà soldi nella nostra causa, creerà una classe di professionisti. Saremo tutti rovinati.”
“Be’,” ribattei, “è un’argomentazione valida. C’è del vero in ciò che dite… ma anche a due passi da questa stessa casa, gli alcolisti stanno morendo come mosche. E se questa cosa non si diffonderà più velocemente di quanto abbia fatto negli ultimi tre anni, potrebbero volerci altri dieci anni solo per raggiungere la periferia di Akron. In nome di Dio, come faremo a portare questo messaggio agli altri? Dobbiamo correre qualche rischio. Non possiamo mantenerla così semplice da sfociare nell’anarchia e farla diventare complicata. Non possiamo mantenerla così semplice da impedirne la propagazione. E ci serviranno molti soldi per realizzare tutto questo.”
Così, sforzandomi al massimo – ed ero piuttosto persuasivo, a quei tempi – alla fine ottenemmo un voto in quella piccola riunione, e fu un risultato strettissimo, con una maggioranza di appena 2 o 3 voti. Con una certa riluttanza, il gruppo disse: “Be’, Bill, se servono un sacco di soldi, è meglio che torni a New York, dove ce ne sono in abbondanza, e li raccogli tu.”
Ebbene, ragazzi, era proprio la parola che aspettavo. Così filai a gambe levate verso la grande città e cominciai a contattare persone facoltose, descrivendo questa cosa straordinaria che era accaduta. Ma non sembrò affatto così straordinaria ai ricchi. “Cosa? 35 o 40 ubriachi diventati sobri? Ne hanno già fatti smettere prima d’ora, sai. E poi, signor Wilson, non crede che sia un po’ come raccogliere le briciole? Insomma, non sarebbe meglio lasciare queste cose alla Croce Rossa?”
“In altre parole, nonostante tutte le mie ardenti sollecitazioni, ricevetti un fredda risposta dai signori del denaro. Beh, cominciai a sentirmi giù, e quando mi sento giù, lo stomaco si ribella… e non solo quello.”
“Una notte ero a letto con un attacco di ulcera immaginaria (cosa che mi capitava spesso – ne ebbi uno anche quando scrissi i 12 Passi) e dissi: «Mio Dio, qui a Clinton Street stiamo morendo di fame». A quel punto, la casa era piena di alcolisti. Ci stavano mangiando letteralmente la casa. A quei tempi non credevamo nel chiedere soldi a nessuno – così Lois era quella che guadagnava, io facevo il missionario, e gli alcolisti divoravano tutto. «Non può andare avanti così. Ci servono quelle ubriacatoie, ci servono quei missionari, e ci serve un libro. Questo è certo.»“
“La mattina dopo mi infilai alla meglio nei vestiti e andai da mio cognato. È un medico, ed è praticamente l’ultima persona che abbia seguito il mio tracollo fino in fondo. L’unico, a parte il Signore, ovviamente. «Beh», dissi, «andrò da Leonard». Così andai da mio cognato Leonard, e lui ritagliò un po’ di tempo per me tra un paziente e l’altro. Cominciai il mio solito piagnisteo su quei ricconi che non volevano darci un soldo per questa impresa grandiosa e gloriosa.”
“Mi sembrava che lui [Leonard] conoscesse una ragazza, e credo che avesse uno zio in qualche modo legato agli uffici dei Rockefeller. Gli chiesi di chiamare per verificare se quest’uomo esistesse e, in caso affermativo, se ci avrebbe ricevuti. Su quali fragili fili a volte pende il nostro destino! La telefonata fu fatta.”
“Dall’altro capo del telefono rispose immediatamente la voce del caro Willard Richardson – uno dei più amabili gentiluomini cristiani che abbia mai conosciuto. Non appena riconobbe mio cognato, esclamò: «Ma Leonard, dove sei stato tutti questi anni?». Ora, mio cognato, a differenza mia, è un uomo di poche parole, così rispose subito al caro vecchio zio Willard di avere un cognato che, a quanto pare, aveva un certo successo nel far smettere di bere gli alcolisti, e chiese se potevamo andare entrambi a trovarlo. «Ma certo», disse il caro Willard. «Venite pure subito.»
“Così ci dirigemmo verso il Rockefeller Plaza. Salimmo quell’ascensore – 54 o 58 piani, credo – e ci trovammo davanti agli uffici personali del signor Rockefeller, chiedendo di vedere il signor Richardson. Ed ecco lì, seduto, questo adorabile, benevolo anziano signore, che però aveva una certa luce furba negli occhi.”
“Così mi sedetti e gli raccontai della nostra entusiasmante scoperta, di questa formidabile soluzione per gli alcolisti appena giunta nel mondo, come funzionava e cosa avevamo fatto per loro. E, ragazzi, ecco il primo uomo con soldi – o accesso ai soldi – che ci ascoltava davvero! (Ricordate che eravamo negli uffici personali del signor Rockefeller, e avevamo ormai capito che questo era il suo amico più stretto.)
Allora disse: «Sono molto interessato. Le andrebbe di pranzare con me, signor Wilson?»
Be’, ora capite: per un promoter in ascesa come me, suonava piuttosto bene – pranzare con il migliore amico di John D. [Rockefeller]. Le cose stavano migliorando. Il mio attacco di ulcera svanì. Così pranzai con quel signore anziano, e tornammo e ritornammo sull’argomento, e, cavoli, era così caloroso, gentile e amichevole.”
“Proprio alla fine del pranzo, disse: «Allora, signor Wilson – o Bill, se posso permettermi – le piacerebbe organizzare un pranzo con alcuni miei amici? C’è Frank Amos, che si occupa di pubblicità ma ha fatto parte di un comitato che consigliò al signor Rockefeller di abbandonare la crociata proibizionista. E poi Leroy Chipman, che gestisce gli immobili del signor Rockefeller. E il signor Scotty, presidente del consiglio della Riverside Church, e altri personaggi simili. Credo che vorrebbero ascoltare la vostra storia.»
“Così organizzammo un incontro, che si tenne in una notte d’inverno del 1937 al numero 30 di Rockefeller Plaza. Facemmo venire in fretta e furia un paio di alcolisti da Akron – incluso Smithy, ovviamente – a capo della delegazione. Io arrivai con il gruppo di New York, quattro o cinque persone. Con nostro stupore, ci fecero entrare nella sala riunioni personale del signor Rockefeller, accanto al suo ufficio. Pensai: «Be’, ora la cosa si fa seria.» E mi sentii davvero incoraggiato quando il signor Richardson mi disse che stavo seduto sulla poltrona appena lasciata libera dal signor Rockefeller. Dissi: «Ecco, ora siamo davvero vicini ai soldi.»“
“Anche il vecchio dottor Silkworth era presente quella sera, e testimoniò ciò che aveva visto accadere ai nostri nuovi amici. Ogni alcolista, non trovando di meglio da dire, raccontò la propria storia di dipendenza e recupero, e quegli illustri signori ascoltarono. Sembravano decisamente colpiti. Capii che era giunto il momento di chiedere il grande favore. Così, con cautela, sollevai la questione delle ubriacatoie, dei volontari stipendiati e del problema cruciale di un libro o del materiale da pubblicare.
Ebbene, Dio muove le sue creature in modi misteriosi per compiere le sue meraviglie. Ma a me non sembrò affatto una meraviglia quando il signor Scott, a capo di una grande società di ingegneria e presidente della Riverside Church, ci guardò e disse: «Signori, fino a questo momento, tutto è stato fatto per pura buona volontà. Nessun piano, nessuna proprietà, nessun dipendente stipendiato, solo un uomo che passa la buona novella al prossimo. Non è così? E non è forse proprio qui che risiede il grande potere di questa società? Ora, se la sovvenzionassimo, non ne altereremmo l’intera natura? Vogliamo fare tutto il possibile – siamo qui per questo – ma sarebbe saggio?»“
“E allora, noi ‘venditori’ ci lanciammo addosso al signor Scott, dicendo: «Ma signor Scott, siamo solo in quaranta. Ci sono voluti tre anni. Milioni di persone, signor Scott, moriranno prima che questa cosa li raggiunga, se non avremo soldi, e tanti!» E alla fine presentammo la nostra causa a quei signori: servivano i volontari, le ubriacatoie e il libro.
Uno di loro si offrì di indagare attentamente sulla nostra realtà. E visto che il povero vecchio dottor Bob era più in difficoltà economiche di me, e dato che il primo gruppo e la comunità reciproca erano ad Akron, dirigemmo la loro attenzione là.
Frank Amos – ancora oggi membro del consiglio della Fondazione – a sue spese prese un treno per Akron e fece ogni tipo di ricerca preliminare sul dottor Bob. Tutti i rapporti erano positivi, tranne il fatto che era un ubriaco da poco sobrio. Visitò il piccolo incontro locale, andò a casa Smith e tornò con quella che considerava una proposta molto modesta: raccomandò ai nostri amici di iniziare con una somma simbolica, diciamo 50.000 dollari – giusto per saldare il mutuo sulla casa di Smith, allestire un piccolo centro di riabilitazione, mettere il dottor Smith a capo del progetto, sovvenzionare brevemente alcuni membri fino a nuovi fondi, avviare la catena di ospedali, assumere qualche volontario e lavorare al libro… tutto per la miseria di 50.000 dollari.”
“Be’, considerando il tipo di persone con cui stavamo trattando, quella cifra sembrava quasi modesta. Ma si sa, una cosa tira l’altra, e a noi sembrava davvero una manna dal cielo. Eravamo felicissimi.
Il signor Willard Richardson, il nostro primo contatto, portò poi quel rapporto a John D. Rockefeller Jr., come tutti ricordano. E in seguito ho saputo cosa accadde in quell’incontro. Rockefeller lesse il rapporto, chiamò Willard Richardson e lo ringraziò, dicendo: ‘In qualche modo, tutto questo mi ha profondamente colpito. Mi interessa enormemente.’ Poi, fissando l’amico Willard, aggiunse: ‘Ma il denaro non rischia di rovinare questa cosa? Temo terribilmente che potrebbe. Eppure, sono così stranamente commosso.’
Poi arrivò un’altra svolta nel nostro destino. Quell’uomo, il cui mestiere era donare denaro, disse a Willard Richardson: ‘No, non sarò io a rovinare questa cosa con i soldi. Dici che questi due uomini che la guidano sono in difficoltà? Metterò 5.000 dollari nelle casse della Riverside Church. Quelle persone potranno formare un comitato e usarli come credono. Voglio sapere come andrà. Ma, per favore, non chiedetemi altro denaro.’“
“Be’, dai 50mila che erano poi diventati 5, coprimmo il mutuo sulla casa di Smithy con circa tremila dollari. Ne rimasero duemila, e anche quelli io e Smithy ci mettemmo a rosicchiarli. Insomma, eravamo ben lontani dalla catena di ubriacatoie e dal libro. Che diavolo avremmo fatto?
Così organizzammo altri incontri con i nostri nuovi amici – Amos, Richardson, Scott, Chipman e altri che ci sono rimasti vicini fino a oggi (alcuni ora scomparsi). E, nonostante il consiglio del signor Rockefeller, riuscimmo di nuovo a convincerli che questa cosa aveva bisogno di molti più soldi. Come avremmo fatto altrimenti? Allora uno di loro propose: ‘Perché non creiamo una fondazione, una specie di Rockefeller Foundation?’ Io dissi: ‘Spero solo che somigli a quella per i soldi.’
Uno di loro ci procurò un avvocato gratuito di uno studio interessato alla cosa. E gli chiedemmo di redigere un atto costitutivo per una certa Alcoholic Foundation. Perché scegliemmo proprio questo nome? Non lo so. Non so se la Fondazione fosse alcolica (alcoholic), ma si chiamava proprio Alcoholic Foundation, non Alcoholics Foundation.”
“L’avvocato era parecchio confuso, perché durante l’incontro che istituì la Fondazione, fummo chiari nel dire che non volevamo essere in maggioranza. Sentivamo che nel consiglio dovevano esserci non-alcolisti, e che dovevano avere una maggioranza di un voto.
«Ma», disse l’avvocato, «qual è la differenza tra un alcolista e un non-alcolista?» E uno dei nostri brillanti ubriaconi rispose: «Facile: un non-alcolista è uno che può bere, un alcolista è uno che non può.»
«Ehm», disse l’avvocato, «come lo scriviamo nello statuto?» Non lo sapevamo. Alla fine, nacque una Fondazione con un consiglio di – credo – sette membri: quattro di questi nuovi amici (incluso mio cognato), Richardson, Chipman, Amos e alcuni di noi alcolisti. Credo che Smithy entrò nel consiglio, mentre io, con un certo calcolo, rimasi fuori, pensando che sarebbe stato più comodo in futuro.”
“Così avevamo questa fantastica nuova fondazione. A differenza del signor Rockefeller, i nostri nuovi amici erano convinti che avessimo bisogno di un sacco di soldi, e così i nostri ‘Mendicanti in giacca e cravatta’ a New York cominciarono a sollecitare donazioni dai ricchi, ancora una volta. Avevamo una lista di nomi e persino credenziali raccomandate da amici di John D. Rockefeller. ‘Come potete sbagliare, vi chiedo, in questa raccolta fondi?’
La Fondazione era nata nella primavera del 1938, e per tutta l’estate cercammo di ottenere fondi dai benestanti. Be’, o erano in Florida, o preferivano la Croce Rossa, o alcuni trovavano semplicemente gli alcolisti disgustosi – e in tutta l’estate del 1938 non raccogliemmo un dannato centesimo, lode a Dio!
Nel frattempo, cominciammo a tenere riunioni del consiglio, che si trasformavano in sessioni di commiserazione per la mancanza di fondi. Tra il mutuo, io e Smithy che rosicchiavamo i resti, quei cinquemila dollari erano volati via, ci ritrovammo di nuovo al verde. Smithy, poi, non riusciva a riprendere la sua pratica medica: era un chirurgo, e a nessuno piace farsi operare da un chirurgo alcolista – anche se sobrio da tre anni. “E allora, che avremmo fatto?
Un giorno, probabilmente nell’agosto del 1938, portai a una riunione della Fondazione un paio di capitoli di un libro che avevo in mente, insieme alle raccomandazioni di alcuni medici della Johns Hopkins, per cercare di spillare soldi ai ricchi. Avevamo ancora quei due capitoli in giro.
Frank Amos disse: «Sai, conosco il direttore editoriale religioso della Harper, un mio vecchio amico, Gene Exman. Perché non porti questi due capitoli – la tua storia e l’introduzione al libro – da lui e vedi cosa ne pensa?» Così portai i capitoli in editoria. Con mia grande sorpresa, Gene, che sarebbe diventato un grande amico, li guardò e disse: «Signor Wilson, potrebbe scrivere un intero libro così?»“
“«Be’», dissi, «certo, certo!» Si discusse ancora un po’. Credo che [Gene] entrò a mostrare il testo al signor Canfield, il grande capo, e si tenne un altro incontro. Il risultato fu che la Harper accennò alla possibilità di pagarmi, in qualità di autore emergente, 1.500 dollari di anticipo sulle royalty, una somma che mi avrebbe permesso di completare il libro. La cosa mi fece piacere. Mi fece sentire quasi uno scrittore, o giù di lì.
Mi sentivo davvero soddisfatto, ma dopo un po’ non più così tanto. Perché cominciai a ragionare – e con me anche gli altri –: «Se questo Wilson divora quei 1.500 dollari mentre scrive il libro, una volta pubblicato ci vorrà un sacco di tempo per rientrare dei costi. E se la cosa gli frutta pubblicità, come gestiremo le richieste che arriveranno? E poi, che sono mai un misero 10% di royalty?»
A me, quei 1.500 dollari sembravano comunque una bella somma. Ma poi pensammo anche: «Ecco un editore prestigioso come la Harper, ma se questo libro, una volta completato, dovesse diventare il testo fondamentale di AA, perché mai dovremmo lasciare il nostro principale strumento di diffusione nelle mani di altri? Non dovremmo controllarlo noi?» Fu a quel punto che il progetto del libro davvero decollò.”
“Avevo un tipo che mi aiutava in questa faccenda – un rosso, Hank Parkhurst, con dieci volte la mia energia, un promoter nato. Mi disse: «Bill, questa è la nostra occasione, vieni con me.» Entrammo in una cartoleria, comprammo un blocchetto di certificati azionari bianchi e scrivemmo in cima: ‘Works Publishing Company’ – Valore nominale: 25 dollari.
Prendemmo quel blocchetto di certificati (senza perdere tempo a costituire una società, cosa che avvenne solo anni dopo) e lo portammo al primo incontro AA, dove in teoria non si dovrebbero mischiare soldi e spiritualità. Dicemmo agli alcolisti: «Sentite, sarà un gioco da ragazzi. Parker prenderà un terzo delle azioni per i servizi resi. Io, l’autore, un altro terzo. E voi potete avere il restante terzo… basta che versiate subito il primo pagamento! Se volete solo un’azione, sono 5 dollari al mese per 5 mesi. Capito?»“

“E gli alcolisti ci fissarono con quell’espressione di ghiaccio che diceva: ‘Che diavolo, ci state chiedendo di comprare azioni di un libro che non avete ancora scritto?’
‘Ma certo!’ rispondemmo. ‘Se la Harper è disposta a investirci, perché non voi? Loro dicono che sarà un buon libro!’
Ma quelli continuavano a guardarci come statue. Dovemmo inventarci altre argomentazioni.”
*”Abbiamo fatto due conti sul prezzo del libro, ragazzi. Un libro di 400-450 pagine dovrebbe vendersi a circa 3,50 dollari.”*
A quei tempi, dopo aver consultato le tipografie, scoprimmo che un libro da 3,50 dollari poteva essere stampato a 35 centesimi – un guadagno del 1.000%! (Ovviamente non menzionammo le altre spese, solo i costi di stampa.)
“Ragazzi, pensateci: quando inizieremo a venderlo a vagonate, li stamperemo a 35 centesimi e li venderemo per corrispondenza a 3,50 dollari. Come si fa a perdere?”
Ma gli alcolisti continuavano a guardarci con quello sguardo di ghiaccio. Niente da fare.
Bene, capimmo che serviva un’argomentazione migliore. La Harper diceva che era un buon libro, potevamo stamparlo a 35 centesimi e venderlo a 3,50 dollari… ma come convincere gli alcolisti che saremmo riusciti a smerciarne interi vagoni? Milioni di dollari!“
“Così ci viene l’idea di andare al Reader’s Digest e riusciamo a ottenere un appuntamento con il signor Kenneth Paine, il direttore editoriale. Accidenti, non dimenticherò mai il giorno in cui siamo scesi dal treno a Pleasantville e siamo stati accompagnati nel suo ufficio. Gli raccontammo con entusiasmo la storia di questa fantastica società agli inizi. Ci soffermammo sull’amicizia tra il signor Rockefeller e Harry Emerson Fosdick. Insomma, con Paine eravamo in buona compagnia. Tra l’altro, la società stava per pubblicare un manuale, ancora in fase di scrittura, e ci chiedemmo: ‘Signor Paine, non crede che questo potrebbe essere di enorme interesse per il Reader’s Digest?’ Considerando, ovviamente, che il Reader’s Digest ha una tiratura di 12 milioni di lettori… Se solo fossimo riusciti a ottenere un po’ di pubblicità gratuita per il libro imminente, avremmo davvero fatto colpo, capisce?”
“Be’,” disse il signor Paine, “la cosa mi sembra estremamente interessante, l’idea mi piace, e credo proprio che sarebbe un articolo perfetto per il Digest. Quanto tempo ci vorrà, secondo lei, signor Wilson, prima che questo nuovo libro sia pubblicato?”
Io risposi: “Abbiamo già scritto un paio di capitoli… ehm… se riusciamo a lavorarci senza interruzioni, signor Paine, beh… probabilmente… visto che siamo a ottobre… dovremmo riuscire a pubblicarlo per aprile o al massimo maggio prossimo.”
“Ma certo,” disse il signor Paine, “sono sicuro che al Digest piacerebbe un’idea del genere. Signor Wilson, ne parlerò con il comitato editoriale, e quando sarà il momento giusto e voi sarete pronti a partire, venite qui e metteremo un giornalista specializzato a lavorarci, così potremo raccontare tutto della vostra associazione.”
A quel punto, il mio amico promoter chiese: “Ma signor Paine, nel servizio citerete il nuovo libro?”
“Sì,” rispose Paine, “menzioneremo il libro.”
Be’, era tutto quello che ci serviva. Tornammo dai nostri ubriaconi e dicemmo: “Sentite, ragazzi, qui ci sono letteralmente milioni da guadagnare – come potete sbagliarvi? Harpers dice che sarà un libro di successo. Li compriamo a 35 centesimi dalla tipografia, li vendiamo a 3,50 dollari e il Reader’s Digest ci farà pubblicità gratuita nel loro articolo. Ragazzi, quei libri voleranno via a carriolate! Come potete sbagliarvi? E poi, in fondo ci servono solo 4 o 5 mila dollari.”
“E così cominciammo a vendere le azioni della Works Publishing – non ancora costituita ufficialmente – al valore nominale di 25 dollari, con rate da 5 dollari al mese alla povera gente. Alcuni comprarono una sola azione, mentre un tizio ne prese addirittura dieci. Vendemmo qualche azione anche a non alcolisti, e il mio amico promoter, che doveva ricevere un terzo degli utili, era fondamentale in questa operazione perché andava in giro a riscuotere i soldi dagli ubriaconi, permettendo a me e alla piccola Ruthie Hock di continuare a lavorare al libro e a Lois di comprarsi da mangiare (anche se continuava a lavorare in quel grande magazzino).
Così iniziarono i preparativi e scrivemmo altri capitoli. Portavamo le bozze alle riunioni degli A.A. a New York, ma non fu affatto un successo immediato. Non era come il pollo fritto: i ragazzi non si ‘divorarono’ quei capitoli. All’improvviso mi ritrovai in mezzo a un turbine di discussioni. Io facevo solo l’arbitro – alla fine dovetti mettere dei paletti. ‘Ehi, ragazzi, da una parte abbiamo i santoni che vogliono tutta la vecchia roba tradizionale nel libro, e dall’altra voi che mi dite che deve essere un libro psicologico – ma quella roba non ha mai curato nessuno, e non ci ha aiutato granché nei centri di recupero. Quindi, sarò io a fare da arbitro. Vi mostrerò delle bozze e raccoglierò i vostri commenti.’ E così, combattemmo, soffrimmo e ci consumammo capitolo dopo capitolo. Li inviammo ad Akron, dove vennero fatti circolare, scatenando infinite discussioni su cosa includere e cosa no. Nel frattempo, facevamo scrivere le loro storie agli alcolisti o le facevamo scrivere da giornalisti per inserirle alla fine del libro. L’idea era di avere un testo principale e poi una serie di storie di alcolisti che erano riusciti a restare sobri.
Poi arrivò la notte in cui eravamo bloccati al quinto capitolo. Come sapete, avevo parlato molto di me stesso – dopotutto era naturale. Poi c’era il capitolo introduttivo, quello sull’agnostico e la descrizione dell’alcolismo, ma, cavoli, alla fine dovevamo proprio spiegare di cosa parlava questo libro e come funzionava il programma. All’epoca, come vi ho detto, si basava su sei passi. Quella sera, ero a letto a Clinton Street, chiedendomi che diavolo avremmo dovuto scrivere nel prossimo capitolo. Mi venne l’idea: serviva una spiegazione chiara e concreta di quei principi, in modo che gli alcolisti non potessero trovare scappatoie. Niente scuse, niente vie di fuga. E quei sei passi avevano due grandi buchi da cui potevano sgattaiolare via. Inoltre, se il libro fosse arrivato a lettori lontani, dovevano avere un programma assolutamente esplicito da seguire. Mentre pensavo queste cose, la mia immaginaria ulcera mi tormentava ed ero furibondo con quegli alcolisti perché i soldi arrivavano troppo lentamente. Alcuni avevano le azioni ma non pagavano. Un paio di tizi vennero a trovarmi e iniziammo a litigare, urlando e strepitando. Alla fine andai a letto con la mia ulcera e dissi: ‘Povero me.’”
“C’era un blocco di carta accanto al letto. Lo presi e dissi: ‘Devi spezzare questo programma in piccoli pezzi, così non possono trovare scappatoie.’ Così mi misi a scrivere, cercando di suddividerlo in parti più piccole. Quando ebbi elencato tutti i pezzi su quel foglio giallo, li numerai e fui piacevolmente sorpreso quando arrivai a dodici. ‘È un numero significativo nel cristianesimo e nel misticismo,’ pensai. Poi notai che, invece di lasciare l’idea di Dio alla fine, l’avevo messa all’inizio, ma non ci feci troppo caso – sembrava comunque una buona soluzione.
Alla riunione successiva, presentai i passi e cercai di spiegarli nel resto del capitolo. Ragazzi, scoppiò il finimondo! ‘Cosa vuol dire cambiare il programma? E questo? E quello? C’è troppo Dio in questa roba! Non ci piace, hai messo questi ragazzi in ginocchio – falli rialzare!’ Molti di quegli alcolisti avevano il terrore di sembrare pii. ‘Togliamo del tutto Dio dalla storia!’ Queste furono le discussioni che affrontammo. Da quel tremendo battibecco nacquero i Dodici Passi. Quel dibattito portò all’introduzione di una frase che avrebbe salvato migliaia di vite; non fu certo merito mio. Io ero dalla parte dei bigotti, vedete, ancora sotto l’effetto della mia ‘illuminazione’. L’idea di ‘Dio come posso concepirlo’ uscì da quella discussione furibonda, e la inserimmo.
A poco a poco, le cose andarono avanti. Gli alcolisti versavano i soldi a singhiozzo, e riuscimmo a tenere aperto un ufficio a Newark, che in realtà era il locale di un’attività fallita che avevo cercato di avviare con un amico. A volte i fondi erano a terra, e Ruthie Hock lavorava senza stipendio. Le demmo un bel po’ di azioni della Works Publishing, ovviamente. Bastava strappare un pezzo di carta dal blocchetto – valore nominale 25 dollari – ed ecco la tua paga settimanale, cara.
Arrivammo così al gennaio 1939. Qualcuno disse: ‘Non dovremmo testare questa roba? Fare una copia preliminare, un multilith o ciclostilato del testo e alcune delle storie personali arrivate – provarlo con preti, medici, il Comitato Cattolico per le Pubblicazioni, psichiatri, poliziotti, pescivendole, casalinghe, alcolisti, tutti. Per vedere se c’è qualcosa che stona e magari raccogliere idee migliori?’ Con non poca spesa, preparammo la copia preliminare. La distribuimmo e arrivarono i commenti, alcuni utilissimi. Arrivò anche al Comitato Cattolico per le Pubblicazioni a New York, e all’epoca avevamo un solo membro cattolico che potesse presentarla – appena uscito dal manicomio e per nulla coinvolto nella stesura del libro.
Il libro superò l’esame, e le storie continuarono ad arrivare. In qualche modo le editammo; in qualche modo mettemmo insieme le bozze. Era ora di stampare. Intanto, gli alcolisti erano un po’ lenti coi pagamenti delle azioni, così riuscii a farmi ricevere da Charlie Towns, dove il vecchio dottor Silkworth teneva banco. Charlie credeva in noi, così gli chiedemmo 2.500 dollari. Charlie non voleva azioni; voleva una cambiale sul libro non ancora scritto. Ottenemmo i 2.500 da Charlie, girandoli attraverso la Fondazione per Alcolisti per renderli esentasse. Avevamo anche sperperato 6.000 dollari in nove mesi per mantenere noi tre in un ufficio, e la cassa si stava svuotando. Dovevamo ancora stampare il libro.
Andammo alla Cornwall Press, il più grande tipografo del mondo, dove avevamo già fatto delle richieste. Chiedemmo un preventivo e ci dissero che erano felici di farlo. ‘Quante copie desiderate?’ Difficile a dirsi. La nostra comunità era ancora piccola, e non ne avremmo vendute molte tra i membri, ma il Reader’s Digest avrebbe pubblicizzato il libro ai suoi due milioni di lettori. Questi libri sarebbero volati via a palate!
Il tipografo non era altri che il caro vecchio signor Blackwell, un nostro amico cristiano. ‘Quanto volete versare come acconto? Quante copie?’ ‘Be’, vogliamo essere prudenti… stampiamone 5.000 per cominciare.’ Blackwell ci chiese con cosa avremmo pagato. Gli dicemmo che non avremmo dato molto: bastavano poche centinaia di dollari come acconto. Ho ribadito che viaggiavamo in ottima compagnia, eravamo amici del signor Rockefeller e tutto il resto.”
“Così Blackwell iniziò a stampare i 5.000 libri [N.d.r. – in realtà ne furono stampati 4.730]; furono preparate le lastre e corrette le bozze. Cavoli, all’improvviso ci ricordammo del Reader’s Digest. Tornammo lì, entrammo nell’ufficio del signor Kenneth Paine e gli dicemmo: ‘Siamo pronti a partire.’ E il signor Paine rispose: ‘Partire con cosa? Ah sì, vi ricordo, voi due, signor Marcus e signor Wilson. Siete venuti qui l’autunno scorso, vi dissi che il Reader’s Digest sarebbe stato interessato al vostro nuovo lavoro e al vostro libro. Beh, subito dopo la vostra visita, ho consultato il comitato editoriale e, con mia grande sorpresa, l’idea non gli è piaciuta per niente… e ho dimenticato di avvisarvi!’
Cristo santo, avevamo gli alcolisti che ci avevano messo 5.000 dollari, Charlie Towns che ne aveva anticipati 2.500 e altri 2.500 da pagare al tipografo. In banca restavano solo 500 dollari… che diavolo avremmo fatto?
Morgan Ryan, l’irlandese belloccio che aveva portato il libro al Comitato Cattolico per le Pubblicazioni, in passato era stato un bravo pubblicitario. Disse di conoscere Gabriel Heatter. ‘Gabriel conduce quei programmi radiofonici di tre minuti, cuore a cuore. Posso ottenere un’intervista con lui, e magari mi farà parlare alla radio di tutta questa faccenda,’ disse Ryan.
Così i nostri spiriti si rialzarono. Poi, all’improvviso, un brivido ci assalì: e se questo irlandese si fosse ubriacato prima dell’intervista con Heatter? Andammo a parlare con Heatter e, guarda un po’, lui accettò di intervistarlo. A quel punto, ci spaventammo ancora di più. Affittammo quindi una stanza all’Athletic Club in centro e vi rinchiudemmo Ryan con una guardia giorno e notte per dieci giorni.
Nel frattempo, ci riprendemmo. Immaginavamo già quei libri volare via a palate. Poi il mio amico promoter disse: ‘Sentite, un’intervista così importante dovrebbe avere un seguito. Sarà trasmessa in tutta la nazione… su una rete nazionale. Secondo me, il pubblico giusto per questo libro sono i medici, i dottori. Propongo di investire gli ultimi 500 dollari che ci restano in una pioggia di cartoline postali, da inviare a ogni medico a est delle Montagne Rocciose. Su queste cartoline scriveremo: “Ascolta tutto su Alcolisti Anonimi nel programma di Gabriel Heatter – spendi 3,50 dollari per il libro Alcolisti Anonimi, cura sicura per l’alcolismo”.’ E così spendemmo gli ultimi 500 dollari in quella tempesta di cartoline e le inviammo.”
Riuscirono a mantenere Ryan sobrio, anche se poi, col tempo, non ce la fece. Tutti gli alcolisti erano incollati alla radio. Il mercato interno di Alcolisti Anonimi era già saturo, perché, vedete, avevamo 49 azionisti che avevano ricevuto una copia gratuita del libro, più altri 28 ragazzi le cui storie erano state pubblicate e che avevano avuto anch’essi il libro in omaggio. Avevamo esaurito il mercato interno. Ma ci immaginavamo già le pile di libri spedite a quei medici e ai loro pazienti. E infatti, Ryan venne intervistato. Heatter tirò fuori tutta la sua enfasi drammatica, e noi già vedevamo gli ordini arrivare a valanghe.
Non vedevamo l’ora di correre alla vecchia Casella Postale 658, Church Street Annex, l’indirizzo stampato nelle prime edizioni del libro. Aspettammo tre giorni, poi io, Hank e Ruthie Hock andammo a controllare. Il box non era chiuso a chiave: si poteva guardare attraverso il vetro. Vedemmo che c’erano solo poche cartoline. Mi sentii morire. Ma il mio amico promoter disse: “Bill, non possono mettere tutte le cartoline lì dentro, avranno sacchi pieni da qualche parte!” Andammo all’impiegato postale, che ci consegnò dodici misere cartoline. Dieci erano illeggibili, scritte da chissà quali dottori, farmacisti… o scimmie? Avevamo solo due ordini per il libro Alcolisti Anonimi, ed eravamo completamente al verde.
Lo sceriffo si presentò in ufficio, il povero signor Blackwell non sapeva come riavere i suoi soldi, e la casa in cui vivevo con Lois fu pignorata. Ci ritrovammo in strada, con i nostri mobili accatastati sul marciapiede. Questa era la situazione del libro Alcolisti Anonimi e lo stato di grazia in cui versavano i Wilson nell’estate del 1939.
Per di più, gli alcolisti cominciarono a protestare: “E i nostri 4.500 dollari?” Persino Charlie (Towns), che era benestante, era un po’ preoccupato per quei 2.500 dollari. Cosa potevamo fare? Mettemmo le nostre cose in un magazzino, senza nemmeno poter pagare il facchino. Un membro di A.A. ci prestò il suo rifugio estivo, un altro ci diede la sua auto, e la comunità di New York iniziò a fare una colletta per comprarci da mangiare, garantendoci 50 dollari al mese. Così, con un mucchio di azionisti arrabbiati, 50 dollari al mese, un rifugio estivo e un’auto, dovevamo rilanciare le sorti del libro Alcolisti Anonimi. Iniziammo a bussare alle porte delle riviste, chiedendo pubblicità, ma nessuno ci diede retta. Sembrava che tutto stesse per essere pignorato: il libro, l’ufficio, i Wilson… tutto.
Uno dei ragazzi a New York in quel periodo se la passava un po’ meglio degli altri: aveva un negozio di abbigliamento alla moda sulla Fifth Avenue, che però scoprimmo essere quasi tutto ipotecato, avendolo praticamente bevuto. Si chiamava Bert Taylor. Un giorno andai da Bert e gli dissi: “Bert, la rivista Liberty ha promesso di pubblicare un articolo, ho appena ricevuto la conferma oggi, ma uscirà solo a settembre. Si intitolerà ‘Alcolisti e Dio’ e sarà pubblicato da Fulton Oursler, il direttore di Liberty. Bert, quando quell’articolo uscirà, questi libri voleranno via a carrellate. Ci servono 1000 dollari per tirare avanti fino all’estate.” Bert mi chiese: “Sei sicuro che l’articolo verrà pubblicato?” “Certo,” risposi, “è cosa fatta.” Lui disse: “Ok, io non ho i soldi, ma c’è un signore a Baltimora, il sig. Cochran, un mio cliente che compra i pantaloni qui. Fammi chiamare lui.”
Bert chiamò il sig. Cochran a Baltimora, un uomo molto ricco, e gli disse: “Sig. Cochran, più volte le ho accennato di questa associazione di alcolisti a cui appartengo. La nostra associazione ha appena pubblicato un magnifico nuovo manuale, una cura definitiva per l’alcolismo. Sig. Cochran, riteniamo che questo libro dovrebbe essere presente in ogni biblioteca pubblica d’America, e il prezzo di copertina è di 2,50 dollari. Sig. Cochran, se volesse acquistarne un paio di migliaia da destinare alle biblioteche più importanti, naturalmente glieli venderemmo con uno sconto considerevole.” E aggiunse: “Sig. Cochran, il prossimo autunno uscirà della pubblicità su questo nuovo libro, Alcoholics Anonymous, ma nel frattempo le vendite sono lente e ci servirebbero, diciamo, 1000 dollari per tirare avanti. Vorrebbe concedere un prestito alla Works Publishing Company?” Il sig. Cochran chiese come stavano i bilanci della società, e dopo averli visti rispose: “No, grazie.”
Allora Bert disse: “Vede, signor Cochran, lei mi conosce. Mi concederebbe un prestito a nome della mia attività?” “Ma certo,” rispose il signor Cochran, “mi mandi una cambiale.” Così Bert ipotecò il negozio, che comunque sarebbe fallito un anno o due dopo, e salvò il libro Alcoholics Anonymous. Quei mille dollari ci bastarono fino all’uscita dell’articolo su Liberty. Grazie a quello, ricevemmo 800 richieste, vendemmo qualche libro e a malapena riuscimmo a superare il 1939.
Per tutto quel periodo non avevamo avuto notizie da John D. Rockefeller, quando all’improvviso, verso febbraio del 1940, il signor Richardson si presentò a una riunione dei fiduciari della Fondazione e annunciò che aveva grandi novità. Ci disse che Rockefeller, di cui non si era più avuta traccia dal 1937, ci aveva osservato per tutto quel tempo con enorme interesse. Inoltre, voleva organizzare una cena in onore della nostra associazione, invitando i suoi amici per mostrare loro gli inizi di questa nuova e promettente iniziativa.
Richardson tirò fuori la lista degli invitati: c’erano il presidente della Chase Bank, Wendell Wilkie e ogni tipo di personalità di spicco, molte delle quali estremamente ricche. Insomma, dopo una rapida occhiata, stimai che lì seduti ci sarebbero stati un paio di miliardi di dollari in totale. Così ci dicemmo che, forse, finalmente si poteva intravedere qualche possibilità di finanziamento.
Arrivò il giorno della cena: Harry Emerson Fosdick, che aveva recensito il libro di A.A., ci fece un’ottima pubblicità. Il dottor Kennedy parlò dell’approccio medico, avendo visto una sua paziente considerata disperata (Marty Mann) guarire. Io mi alzai e raccontai com’era la vita tra gli “anonimi”. I banchieri, in tutto settantacinque, ricchissimi, sedevano ai tavoli insieme agli alcolisti. Probabilmente erano lì per una sorta di obbligo mondano e un po’ sospettavano che potesse trattarsi di una nuova crociata proibizionista, ma poi si sciolsero, contagiati dall’entusiasmo degli alcolisti in recupero.
Il signor Ryan, l’eroe dell’episodio di Heatter (e ancora sobrio), fu interpellato da un rispettabile banchiere al suo tavolo: “Signor Ryan, credevamo che lei fosse nel settore bancario.” E Ryan rispose: “Affatto, signore. Sono appena uscito dal manicomio di Great Stone.” Questo intrigò i banchieri, che ormai si stavano sciogliendo nell’atmosfera. Purtroppo, però, Rockefeller non poté partecipare alla cena—era malato quella sera—e al suo posto mandò il figlio, un uomo straordinario: Nelson Rockefeller.
Finita la cena, con tutti di buon umore, eravamo di nuovo pronti per la grande richiesta. Nelson Rockefeller si alzò e, a nome del padre, disse: “Mio padre mi incarica di dirvi che gli dispiace molto non poter essere qui stasera, ma è felice che così tanti suoi amici possano vedere gli inizi di questa grande e meravigliosa iniziativa. Qualcosa che ha influenzato la sua vita più di quasi tutto il resto.” Un sostegno pubblico pazzesco! Poi Nelson aggiunse: “Signori, questa è un’opera che procede grazie alla buona volontà. Non richiede denaro.” E a quel punto, i due miliardi di dollari seduti in sala si alzarono e se ne andarono.
Una delusione terribile, ma non durò a lungo.
Ancora una volta, la Provvidenza era intervenuta. Subito dopo la cena, Rockefeller chiese che i discorsi e gli opuscoli fossero pubblicati. Si rivolse alla ormai quasi fallita Works Publishing Company e disse che voleva acquistare 400 copie del libro da inviare a tutti i banchieri presenti alla cena e anche a quelli assenti. Vista la nobiltà dell’intento, gliele demmo a prezzo scontatissimo—nessuno le ha mai pagate così poco. Vendemmo 400 libri a John D. Rockefeller Jr. a un dollaro l’uno, da spedire ai suoi amici banchieri. Inviò i volumi insieme agli opuscoli, accompagnandoli con una lettera personale che firmò rigorosamente a mano, una per una.
In quella lettera, espresse la sua gioia per il fatto che i suoi amici avessero potuto assistere agli inizi di quella che riteneva un’opera magnifica, e quanto profondamente l’avesse toccato personalmente. Poi aggiunse (purtroppo): “Signori, questa è un’opera di buona volontà. Richiede poco, se non nullo, denaro. Io sto donando a queste brave persone 1.000 dollari.”
I banchieri ricevettero la lettera e fecero due conti approssimativi: “Se John D. dà 1.000 dollari, io che ho solo qualche milione dovrei dar loro… diciamo 10 dollari!” Uno di loro, che aveva un parente alcolista, ci mandò 300 dollari. Così, con i 1.000 di Rockefeller più le donazioni degli altri banchieri, raccogliemmo la principesca somma di 3.000 dollari—il primo contributo esterno dell’Alcoholic Foundation.
Quei 3.000 dollari furono divisi equamente tra me e Smithy, giusto per tirare avanti. Per cinque anni sollecitammo gli invitati a quella cena, ricavando circa 3.000 dollari all’anno. Alla fine, potemmo dire a Rockefeller: “Non ci servono più soldi. Le vendite del libro finanziano l’ufficio, i gruppi contribuiscono con le donazioni e i diritti d’autore mantengono il dottor Bob e Bill Wilson.”
Ora capite: la decisione di Rockefeller di non finanziarci fu una benedizione. Ci diede sé stesso. Si espose quando era già oggetto di scherno pubblico per le sue posizioni sull’alcol. Disse al mondo intero: “Questa cosa è buona.” La notizia fece il giro del pianeta. La gente correva in libreria a comprare il nuovo libro, e iniziammo a ricevere ordini in quantità. Un fiume di richieste arrivò nel nostro piccolo ufficio di Veasey Street. I proventi del libro permisero di pagare Ruth. Assumemmo un’altra ragazza: c’erano Ruthie, lei e io. Poi arrivò Jack Alexander con il suo articolo strepitoso sul Saturday Evening Post, e altre 6.000 o 7.000 richieste si riversarono su di noi. Alcoholics Anonymousera diventata un’istituzione nazionale.
Questa è la storia della nascita del libro “Alcoholics Anonymous”, e del suo impatto—che voi tutti conoscete in parte. I proventi di quel libro hanno salvato più volte l’ufficio di New York. Ma non è il denaro ciò che conta: è il messaggio che ha portato. Ha superato montagne e oceani, e ancora oggi accende candele in caverne oscure e su spiagge lontane.
Indice delle pagine della storia di AA
Come in tante cose, specialmente per noi alcolisti, la nostra Storia è il nostro Bene Più Prezioso! Ognuno di noi è arrivato alla porta di AA con un’intensa e lunga “Storia di Cose Che Non Funzionano”. Oggi, in AA e nella Recupero, la nostra Storia si è arricchita di un’intensa e lunga “Storia di Cose Che FUNZIONANO!” E non rimpiangeremo il passato né vorremo chiuderci la porta alle spalle!
Continua a tornare!
Un giorno alla volta!
