
Gli Anelli della Catena
Discorso di Bill W. nel 1956, davanti al Comitato Nazionale sull’Alcolismo
Bill fu presentato al comitato da Marty Mann, la prima donna a raggiungere una sobrietà permanente in Alcolisti Anonimi e fondatrice del Comitato Nazionale sull’Alcolismo.

William G. “Bill” Wilson
*nato il 26 novembre 1895 – morto il 24 gennaio 1971*
Co-fondatore di Alcolisti Anonimi
Ebbene, amici, il nostro mondo è davvero un mondo di contrasti. Solo pochi anni fa, Westbrook Pegler scrisse un articolo in cui descriveva il dottor Bob e me come “i fondatori ubriaconi di Alcolisti Anonimi”. Ma con grande serietà e altrettanta gioia, credo che gli A.A. presenti qui dentro e fuori da questo Comitato, e ovunque, si uniscano a Lois e a me nel dire che questo è uno dei momenti più belli che ci siano mai capitati.
Alcuni dicono che il destino sia una serie di eventi tenuti insieme da un sottile filo di caso o circostanza. Altri affermano che il destino sia fatto di eventi infilati come perle su un filo di causa ed effetto, mentre altri ancora credono che il destino di un’opera buona sia spesso frutto della volontà di Dio, che forgia gli anelli della catena e fa accadere gli eventi. Mi è stato chiesto di venire qui a raccontare la storia di A.A., e sono certo che in questa storia ognuno di voi potrà trovare ragioni a sostegno di ciascuno di questi punti di vista.
Ma questa volta voglio dire più della semplice storia di A.A.. Devo confessare di essere stato assalito da una certa riluttanza, e questa esitazione nasce da un fatto: tutti sanno che un tempo soffrivo di alcolismo, ma pochi sono consapevoli del fatto che soffro anche di schizofrenia, di una personalità divisa.
Ho una personalità da “patriarca di A.A.”, da padre fondatore, se vogliamo, ma ne ho anche un’altra da membro ordinario di A.A., e tra queste due identità c’è un abisso enorme.
Vedete, un padre fondatore di A.A. deve attenersi alla Tradizione che dice di non appoggiare nulla e nessuno, né di dire cose positive sui propri amici esterni – persino sulle gomme da masticare Beemans – per evitare qualsiasi forma di avallo. Quindi, nel mio ruolo di fondatore, sono strettamente vincolato a limitarmi a raccontare la storia della nostra società. Ma come membro A.A., come tutti gli altri, sono un anarchico che si diverte a infrangere le regole, quindi dirò proprio quello che mi pare. A patto che mi accettiate semplicemente come il Sig. Anonimo, uno dei poveri vecchi ubriaconi che cerca ancora di essere onesto!
Veniamo ora al nostro racconto e ai primi anelli della catena di eventi che ci ha portato a questo magnifico momento. Non fui certo il primo anello di questa catena, ma solo uno dei tanti. Penso che tutta questa storia del fondatore vada ridimensionata, e mi prenderò un paio di minuti per farlo.
In realtà, il primo anello della catena fu forgiato circa venticinque anni fa nello studio di un grande psichiatra, Carl Jung. A quel tempo aveva come paziente un noto uomo d’affari americano. Lavorarono insieme per un anno. Il mio amico Rolland era un caso disperato di alcolismo, eppure sotto la guida del medico credeva di poter trovare la liberazione. Lasciò lo studio pieno di speranza, ma poco dopo ricadde nel bere. Disse allora al dottor Jung: “E ora? Lei è la mia ultima speranza”. Il medico lo guardò e rispose: “Credevo potesse essere uno di quei rari casi suscettibili alla mia arte, ma non è così. Non ho mai visto – continuò Jung – un solo caso di alcolismo grave come il suo guarire sotto la mia guida”.
“Ebbene, per il mio amico Rolland, questo equivaleva a una condanna a morte.
‘Ma dottore,’ disse, ‘non c’è altra via, nessuna altra possibilità?’
‘Sì,’ rispose il dottor Jung, ‘esiste qualcosa. Esiste ciò che chiamiamo un’esperienza spirituale trasformativa.’
‘Beh,’ si illuminò Rolland, ‘dopotutto sono stato membro del consiglio parrocchiale della Chiesa Episcopale, sono un uomo di fede.’
‘Oh,’ replicò Jung, ‘questo è ottimo come inizio, ma deve andare molto più a fondo. Parlo di esperienze spirituali trasformative.’
‘Dove potrei trovare una cosa simile?’ chiese Rolland.
Il dottor Jung rispose: ‘Non lo so. Il fulmine colpisce qui o là, in qualsiasi luogo. Non sappiamo né perché né come. Dovrai semplicemente esporti alla religione di tua scelta o a un’influsso spirituale nel modo migliore possibile, provare a chiedere, e forse ti si aprirà un mondo nuovo.’”
Così il mio amico Rolland si unì agli Oxford Groups (i cosiddetti Buchmaniti di quel tempo), prima a Londra e poi a New York, e ecco che il fulmine effettivamente colpì: si trovò inspiegabilmente liberato dalla sua ossessione per il bere.
Dopo un po’, venne a sapere di un mio amico, un tipo che chiamavamo Ebby, il quale trascorreva ogni estate nel Vermont. Era un caso disperato – aveva addirittura schiantato la lucente Packard nuova di suo padre contro il muro di una casa, finendo dritto in cucina, spostando la stufa con l’urto, e chiedendo alla padrona di casa sconvolta: “Che ne dice di una tazza di caffè?” I vicini ritennero che la cosa fosse andata troppo oltre e che andasse rinchiuso.
Fu portato davanti al giudice Graves a Bennington, Vermont (un posto non troppo lontano da casa mia, tra l’altro), e lì il nostro amico Rolland ne fu informato. Radunò un paio di membri degli Oxford Group – uno alcolista, l’altro semplicemente un bevitore incallito – e presero Ebby in carico. Gli inocularono idee semplicissime:
- Che lui, Ebby, non poteva farcela con le sue sole forze – aveva bisogno di aiuto;
- Che avrebbe potuto provare a essere onesto con se stesso come mai prima;
- Che avrebbe potuto confessare i suoi difetti a qualcuno;
- Che avrebbe potuto riparare i danni causati;
- Che avrebbe potuto donarsi agli altri senza secondi fini;
- E che, pur essendo agnostico, avrebbe potuto provare a pregare un Dio, qualunque esso fosse.
Questo era il succo di ciò che il mio amico Ebby estrasse dagli Oxford Group di allora. È vero, in seguito respingemmo gran parte del resto del loro insegnamento. Ed è vero che questi principi si sarebbero potuti trovare altrove, ma di fatto, li trovammo lì.
Ebby, per un periodo, sperimentò la stessa liberazione, poi si ricordò di me. Fu portato a New York e alloggiato alla Calvary Mission, e presto mi chiamò mentre io, a casa, bevevo a Brooklyn. Non dimenticherò mai quel giorno quando all’improvviso si presentò nel vestibolo. Non lo vedevo da tempo. Ormai avevo capito la gravità della mia situazione. Non sapevo definirlo, ma lui sembrava stranamente cambiato… e soprattutto, era sobrio.
Entrò e iniziò a parlare. Gli offrii da bere. Ricordo che avevo una grande damigiana di gin e succo d’ananas – il succo serviva a convincere Lois che non bevevo gin puro. “No, grazie”, non voleva niente. “No, non bevo più.”
“Che ti è preso?” chiesi.
“Beh,” disse, “ho trovato la religione.”
Questo fu un colpo duro per me. Aveva trovato la religione! Aveva sostituito la follia religiosa a quella alcolica. Cercai di essere educato: “Di che marca?”
Lui rispose: “Non la chiamerei proprio una marca. Ho incontrato un gruppo di persone che mi hanno convinto a essere onesto con me stesso, che mi hanno mostrato di essere impotente di fronte ai miei problemi e mi hanno insegnato ad aiutare gli altri. Ora cerco di portare tutto questo anche a te, se lo vuoi. Tutto qui.”
Così, a sua volta, mi trasmise quelle semplici idee attraverso il tavolo della cucina:
Ammettemmo di essere sconfitti.
Fummo onesti con noi stessi.
Ne parlammo con un’altra persona.
Riparammo i danni causati.
Cercammo di portare questo messaggio agli altri, senza cercare ricompensa.
Pregammo il Dio in cui credevamo, qualunque esso fosse.

Nel frattempo, un’altra catena di eventi si era messa in moto. A dire il vero, il primo anello di questa catena risale a William James, spesso considerato il padre della psicologia moderna. Un altro anello fu il mio dottore, William Duncan Silkworth, che un giorno, credo, sarà riconosciuto come un santo della medicina.
Anch’io, come molti, avevo lottato contro questo problema e avevo incontrato il dottor Silkworth al Towns Hospital. Mi aveva spiegato in termini semplicissimi la natura del mio male:
- Un’ossessione che mi condannava a bere contro la mia volontà,
- Un’ipersensibilità fisica sempre più marcata che mi avrebbe portato alla follia,
a meno che non avessi trovato una via d’uscita, magari attraverso una rieducazione. Fu lui a farmi comprendere l’essenza della mia malattia.
Eppure, eccomi di nuovo a bere. Ma ora c’era il mio amico, seduto dall’altra parte del tavolo della cucina, a parlarmi. Già allora, come vedete, gli elementi che oggi costituiscono le fondamenta di A.A. erano tutti presenti:
- La scienza, rappresentata dai dottori Silkworth e Jung, aveva detto “No”:
- “Né la psichiatria, né la psicologia, né la medicina possono risolvere questo problema da sole.”
- “Nemmeno la tua forza di volontà basta.”
- Il tappeto era stato strappato da sotto i piedi di Rolland Hazzard (un alcolista), che a sua volta lo aveva strappato a Ebby, e ora Ebby lo strappava da sotto i miei piedi, citando Jung e confermando ciò che Silkworth, tramite Lois, mi aveva già lasciato intuire.
Così, il palcoscenico era ormai pronto, e ci erano voluti anni perché tutto si mettesse in moto prima che la storia mi raggiungesse.
Certo, avevo resistito all’idea di un Potere superiore a me, anche se il resto del programma mi sembrava abbastanza ragionevole. Ero disperato, pronto a provare qualsiasi cosa, ma continuavo a soffocare quando si parlava di Dio. Alla fine, però, mi dissi quello che da allora ogni membro di A.A. ripete:
“Chi sono io per negare l’esistenza di Dio? Chi sono io per decidere come guarirò?”
Come un malato di cancro, ero ormai disposto a tutto, a affidarmi a qualsiasi medico, e se esisteva un Grande Medico, era meglio che lo cercassi.
Così, piuttosto ubriaco, tornai al Towns Hospital, fui messo a letto, e tre giorni dopo il mio amico riapparve. Un alcolista che parlava a un altro alcolista, attraverso quel legame strano e potente che solo noi possiamo creare.
In una mano, la disperazione: la diagnosi del dottore, l’impotenza della medicina.
Nell’altra, la speranza: le parole di Ebby, la possibilità di una via d’uscita.
Lui ripercorse la sua lista di principi:
Essere onesti con se stessi,
Riparare i danni,
Aiutare gli altri,
Pregare un Dio, qualunque esso fosse.
Poi se ne andò.
La resa e l’illuminazione
Appena uscito, caddi in una depressione terribile, mai provata prima. Per un attimo, ogni ultimo briciolo del mio orgoglio ostinato fu schiacciato nel profondo, e gridai come un bambino:
“Farò qualsiasi cosa, qualsiasi cosa per guarire!”
E senza fede, quasi senza speranza, urlai di nuovo:
“Se esiste un Dio, si riveli!”
Immediatamente, la stanza si illuminò di una luce abbagliante. Mi sembrò di essere sulla cima di una montagna, con la consapevolezza improvvisa di essere libero, completamente libero da quella schiavitù.
Quando l’estasi si placò, mi ritrovai di nuovo sul letto, ma avvolto da una sensazione di Presenza, da una fortissima certezza: non importa quanto fossero sbagliate le cose, alla fine, tutto sarebbe andato bene.
Pensai tra me:
“Dunque, questo è il Dio dei predicatori.”
Da quel giorno fino ad oggi, non sono stato quasi mai tentato di bere, tanto fu istantanea e travolgente la liberazione dall’ossessione.
Al momento della mia dimissione dall’ospedale, qualcuno mi consegnò una copia del libro di William James, “Le varietà dell’esperienza religiosa”. Molti di noi non concordano con la filosofia pragmatica di James, ma penso che quasi tutti converranno che si tratta di un’opera fondamentale, in cui egli analizza questi meccanismi spirituali. E in quel libro, in moltissimi casi – anzi, nella grande maggioranza – tali esperienze partivano da una base di disperazione totale.
In qualche area cruciale della loro vita, quelle persone avevano sbattuto contro un muro: non potevano scavalcarlo, aggirarlo o superarlo. Quel tipo di disperazione era il precursore dell’esperienza trasformativa, e mentre iniziavo a leggere, questi denominatori comuni balzavano evidenti dai casi citati da James.
Mi misi a riflettere: “Sì, io rientravo in quello schema… ma perché non ci erano rientrati più alcolisti prima d’ora?”
In altre parole, ciò di cui avevamo bisogno era una sconfitta ancora più profonda, un crollo radicale che ci permettesse di afferrare questa esperienza trasformativa.
Poi arriva il dottor Silkworth con la risposta, quelle due paroline: l’ossessione e l’allergia.
Parole non così piccole, in realtà – parole enormi, i due mostri gemelli della follia e della morte, con la scienza che pronunciava il suo verdetto di impotenza rispetto alle nostre sole forze. Sì, io avevo ricevuto quel duro colpo. Forse quello aveva preparato il terreno.
Un alcolista che parlava a un altro alcolista era riuscito a convincermi, laddove nessun altro era mai riuscito a smuovermi. Mi misi a correre come un pazzo cercando di aiutare altri alcolisti e, per gratitudine, mi unii per breve tempo agli Oxford Group. Ma loro erano più interessati a salvare il mondo che gli alcolisti. Non durò molto.
Iniziai allora a raccontare agli altri di questa mia improvvisa esperienza mistica, ma temo di essere finito a fare troppi sermoni – e per sei mesi non riuscii a rendere sobrio neanche un ubriaco.
Ed ecco che ritorna l’uomo della medicina, il dottor Silkworth, che mi disse: “Bill, hai messo il carro davanti ai buoi. Perché non smetti di parlare di questa tua strana esperienza e di tutta questa moralità? Perché invece non spieghi a queste persone quanto siano malate dal punto di vista medico? Così, forse, venendo da te o identificandosi con gli altri come loro, riuscirai a smuoverli e a prepararli ad accettare questa psicologia morale.”
In quel periodo, mi avevano spinto a tornare nel mondo degli affari e smettere di fare il missionario. Così mi lasciai coinvolgere in un affare che mi portò a Akron, Ohio. L’accordo saltò e, per la prima volta, sentii la tentazione di bere.
Ero in hotel con circa dieci dollari in tasca, e i miei nuovi amici erano spariti. Pensai: “Accidenti, farei meglio a cercare un altro alcolista con cui lavorare.”
Fu allora che capii, come mai prima, quanto l’aiutare altri alcolisti avesse contribuito a sostenere la mia esperienza iniziale di sobrietà.
Per fortuna, gli amici arrivarono ancora in soccorso. Scesi nella hall dell’hotel e guardai l’elenco delle chiese locali. Distrattamente, feci scorrere il dito lungo la lista di nomi, finché non ne notai uno piuttosto strano: il reverendo Tunks.
“Beh, chiamerò questo Tunks”, decisi.
Si rivelò essere un magnifico pastore episcopale. Gli dissi:
“Sono un ubriacone che cerca un altro ubriacone da aiutare”, e cercai di spiegargli il perché.
Il buon uomo si mostrò un po’ allarmato (dopotutto, non era tutti i giorni che qualcuno lo chiamava con una richiesta del genere!), ma mi diede comunque una lista di una decina di nomi, alcuni dei quali erano membri degli Oxford Group.
Chiamai tutti.
“Beh, era quasi domenica”, mi dissero, “forse ci vediamo in chiesa…”
Alcuni stavano per partire, altri erano impegnati.
Avevo esaurito tutta la lista, tranne un nome. Nessuno aveva tempo né particolare interesse. Niente di sorprendente, date le circostanze. Così tornai a dare un’occhiata al bar, quando una voce interiore mi disse: “Dovresti chiamare proprio lei.”
Si chiamava Henrietta Seiberling – credevo fosse la moglie di un magnate dei pneumatici che avevo incontrato tempo prima. Pensai: “Di certo una signora del genere non vorrà ricevermi di sabato pomeriggio.” Eppure chiamai, e lei rispose: “Venga pure, non sono un’alcolista ma credo di comprendere.”
Questo episodio portò all’incontro con il dottor Bob, uno dei miei principali compagni in questa impresa. Seguendo il suggerimento del dottor Silkworth, gli trasmisi con convinzione la gravità della nostra malattia – e questo portò alla sua improvvisa e completa guarigione.
Andai a vivere a casa degli Smith e poco dopo Bob disse: “Non sarebbe meglio iniziare a lavorare con altri alcolisti?” Risposi: “Certo, penso proprio di sì.” Trovammo un’opportunità al City Hospital di Akron, dove un uomo veniva portato in barella in preda al delirium tremens. Era stato ricoverato sei volte in quattro mesi e non riusciva nemmeno a tornare a casa senza ubriacarsi. Quell’uomo sarebbe diventato il terzo membro di A.A. – il primo vero “paziente” sul letto d’ospedale.

Il dottor Bob ed io andammo a trovarlo e lui disse: “Non ho speranza, sono allo stremo… eppure prego ogni giorno essendo un uomo di fede”. Tuttavia, gli trasmettemmo ugualmente l’impotenza della medicina di fronte a questa malattia quando si tratta di farcela con le proprie sole forze. Gli raccontammo cosa era successo a noi, gli delineammo chiaramente il suo futuro. E la mattina dopo tornammo e lo sentimmo dire a sua moglie: “Dammi i vestiti, andiamo via di qui. Questi sono gli uomini, sono quelli che capiscono”.
Proprio allora e là si formò il primo gruppo di A.A. nell’estate del 1935. La sintesi nelle sue linee principali era completa.
Ma mio Dio, non avevamo nemmeno iniziato. Che lotte in quei successivi primi anni! Una cosa meravigliosa a cui pensare. La nostra crescita fu terribilmente lenta. Arrivammo fino al 1939 prima di ottenere quasi un centinaio di recuperi ad Akron e a New York, con pochi altri a Cleveland, Ohio.
Poi, quell’anno, il Cleveland Plain Dealer pubblicò articoli su di noi così incisivi che i pochi membri di A.A. a Cleveland furono sommersi da centinaia di casi – e questo aggiunse un altro ingrediente necessario.
Fino a quel momento, la crescita era stata lentissima. Poteva davvero diffondersi? Era possibile una produzione su larga scala?
Ebbene, nel giro di pochi mesi, venti membri di Cleveland avevano aiutato a recuperarsi centinaia di nuovi arrivati. Ma questo richiedeva il ricovero ospedaliero, e noi non eravamo ben visti negli ospedali.
Ora arrivo all’argomento di questo Comitato, al suo rapporto con A.A. e al collegamento tra noi. Nel frattempo, qui a New York accadevano grandi eventi: era in preparazione un libro che si sarebbe intitolato “Alcolisti Anonimi”.
Per precauzione, avevamo fatto delle copie ciclostilate da distribuire, e una di queste fu inviata a un uomo che considero uno dei più grandi amici che questa società potrà mai avere: il dottor Harry Tiebout, all’epoca presidente di questo Comitato.
Harry ricevette una delle copie ciclostilate del libro di A.A. e la consegnò a una paziente della Blythewood Sanitarium di Greenwich, Connecticut. La paziente era una donna.
- Prima reazione: Lesse il libro e si infuriò a tal punto da lanciarlo dalla finestra… e poi si ubriacò.
(Questo fu il primo impatto degli Alcolisti Anonimi su di lei.)
Harry la aiutò a smaltire la sbornia e le ridiede il libro. Questa volta, una frase attirò la sua attenzione – fu un grilletto psicologico:
“Non possiamo vivere con il risentimento”
Stavolta, non lo lanciò dalla finestra.
Poco dopo lei partecipò al nostro piccolo incontro – e dovete ricordare che all’inizio del 1939 eravamo ancora meno di cento persone, riunite nella nostra modestissima casa a Brooklyn, al 182 di Clinton Street. Al ritorno da quell’incontro a Greenwich, pronunciò una frase che oggi è diventata un classico in A.A. Disse a un’altra paziente, compagna di sofferenza e amica nel sanatorio:
“Grennie, non siamo più sole. Finalmente abbiamo trovato la risposta.”
Quel momento segnò l’inizio del percorso di Marty. Con l’aiuto fondamentale di Harry e della signora Willey, proprietaria della struttura, Marty fondò il primo gruppo direttamente all’interno del sanatorio. Si dedicò con instancabile impegno al lavoro con altri alcolisti, diventando un punto di riferimento fondamentale per le donne in A.A.
Ed ecco che, senza quasi volerlo, ci ritrovammo con due alleati eccezionali: il dottor Harry e la nostra Marty.
Negli anni successivi, fino al 1944, A.A. stessa attraversò un periodo di grande turbolenza. La pubblicazione dell’articolo sul Saturday Evening Post aveva scatenato 6.000 richieste frenetiche riempiendo di lettere la nostra casella postale di New York, provenienti da tutto il paese e persino dal mondo.
Fu allora che si pose la domanda cruciale:
- “A.A. può davvero diffondersi?”
- “Può funzionare su larga scala?”
- “Può restare unito nonostante l’enorme carico di nevrosi che ci portiamo dentro?”
Non lo sapevamo. Ma ancora una volta, era agire o morire. Come disse il vecchio Benjamin Franklin: “O restiamo uniti, o cadremo uno a uno.”
Da questa esperienza collettiva iniziarono a prendere forma le Tradizioni. Tradizioni relative all’unità e al funzionamento di A.A., ai nostri rapporti con il mondo esterno e a questioni come denaro, proprietà, prestigio e simili.
Le Tradizioni degli Alcolisti Anonimi, che voi qui presenti conoscete già per lo più. Questi principi cominciarono a delinearsi, a cristallizzarsi attorno a noi e, poco a poco, l’ordine emerse da questa massa ribollente di ubriaconi alla ricerca della sobrietà.
A quel punto, i membri del movimento si contavano ormai a migliaia e, come osservò Marty, avevamo la prova che era possibile. Ma eravamo ancora lontani dalla realtà di oggi. A.A. aveva ancora bisogno di amici:
- Amici nel mondo della medicina
- Amici nel mondo religioso
- Amici nella stampa
Ne avevamo alcuni, ma ci servivano molti più alleati.
Il pubblico aveva bisogno di sapere che tipo di male fosse l’alcolismo, e che qualcosa si poteva fareal riguardo. Questo Comitato, proprio come Alcolisti Anonimi, è notevole non solo per ciò che ha fatto nel suo ambito, ma per ciò che ha messo in moto. Ricordo benissimo quando nacque questo Comitato. Mi permise di entrare in contatto con i nostri grandi amici di Yale:
- Il coraggioso dottor Haggard
- L’incredibile dottor Jellinek (o “Bunky”, come lo chiamavamo affettuosamente)
- Seldon [Bacon]
e tutti quegli altri persone dedite alla causa.
Sorse una domanda: “Un membro di A.A. poteva impegnarsi nell’educazione, nella ricerca o in attività simili?”
Ne scaturì un acceso dibattito in A.A., cosa non sorprendente, se si considera che, in quel periodo, eravamo come i naufraghi sulla zattera di Rickenbacker: un minimo scossone rischiava di farci ricadere nel “mare dell’alcol”.
Francamente, avevamo paura. E, come sempre, c’erano i radicali, i conservatori e i moderati sulla questione se i membri di A.A. potessero impegnarsi in altre attività in questo campo.
I conservatori dicevano:
“No, manteniamo le cose semplici, occupiamoci dei fatti nostri.”
I radicali sostenevano:
“Appoggiamo qualsiasi cosa sembri utile, usiamo il nome A.A. per raccogliere fondi e fare tutto il possibile per l’intero settore.”
I moderati, sempre più numerosi, assumevano questa posizione:
“Ogni membro di A.A. che senta la chiamata può impegnarsi in questi campi correlati, perché faremmo una scelta antisociale se agissimo diversamente.”
Alla fine, la Tradizione trovò un equilibrio proprio qui. Da quel giorno, molti furono chiamati e molti scelti per lavorare in questi campi correlati, che ora hanno un potenziale così vasto, cosa che ci permette di capire che stiamo finalmente trovando la giusta dimensione di Alcolisti Anonimi. Solo ora realizziamo di essere solo una piccola parte di un quadro molto più grande.
Ci stiamo rendendo conto, con rinnovata consapevolezza, che senza i nostri amici non solo non saremmo mai potuti esistere fin dall’inizio, ma non avremmo mai potuto crescere. In A.A. stiamo sviluppando una nuova concezione di come dovrebbero essere i nostri rapporti con il mondo e con tutte queste attività correlate. In altre parole, stiamo maturando.
Lo scorso anno a St. Louis siamo stati persino abbastanza audaci da dichiarare di aver raggiunto la maturità – e che all’interno di Alcolisti Anonimi i principi fondamentali per:
- la guarigione,
- l’unità,
- e il servizio
erano ormai chiaramente delineati.
A St. Louis ho tenuto discorsi su ciascuno di questi argomenti, concentrandomi principalmente su ciò che A.A. aveva realizzato in questi ambiti. Ma qui ci troviamo in un campo molto più vasto, e credo che il cielo sia il limite.
Penso di poter affermare senza alcuna riserva che ciò che questo Comitato ha ottenuto con l’aiuto dei suoi grandi amici – oggi numerosi, come tutti potete vedere – non ha eguali.
A mio avviso, nessun’altra organizzazione ha fatto tanto quanto questo Comitato per:
- Creare nuovi legami di amicizia verso Alcolisti Anonimi
- Svolgere un’opera di educazione globale sulla gravità di questa malattia
- Diffondere la conoscenza delle possibili soluzioni
Sono terribilmente di parte e forse un po’ influenzato, perché qui siede la decana di tutte le nostre donne, la mia cara, amata e stimata amica Marty.
Quindi abbandonando il mio ruolo sociale di fondatore, voglio esprimerle davanti a tutti voi il meglio che posso dire, con tutto il mio affetto e la mia gratitudine:
Grazie.
Al termine dell’incontro di St. Louis, ricordo di aver paragonato A.A. a un edificio in stile cattedrale, le cui fondamenta ora si estendevano in ogni angolo della terra. Ricordo di aver detto che sul suo grande pavimento si potevano vedere i Dodici Passi degli Alcolisti Anonimi, con radunati forse 150.000 sofferenti e le loro famiglie.
Abbiamo visto alzarsi le pareti laterali, sostenute dalle Tradizioni di A.A., e a St. Louis, quando la Conferenza eletta subentrò al nostro Consiglio di Amministrazione, la guglia del servizio fu finalmente completata. La sua luce faro, il faro di A.A., brillava lassù, un richiamo per tutto il mondo.
Oggi, seduto qui, ho realizzato che quel concetto non era abbastanza ampio. Sul pavimento di questa cattedrale dello spirito, dovrebbe essere sempre scritta la formula – da ovunque essa provenga – per la liberazione dall’alcolismo: che sia un farmaco, che sia l’arte psichiatrica, che siano le cure di questo Comitato.
In altre parole, noi che affrontiamo questo problema siamo tutti sulla stessa barca, tutti in piedi sullo stesso pavimento. Portiamo dunque su questo pavimento tutte le risorse che possono essere impiegate contro questo male, e non pensiamo all’unità solo in termini di Tradizioni A.A.
Pensiamo piuttosto a un’unità tra tutti coloro che lavorano in questo campo – un’unità degna di una fratellanza e sorellanza, di una parentela nella sofferenza condivisa. Stiamo insieme nello spirito del servizio.
Solo facendo questo potremo davvero dichiararci giunti alla maturità. E solo allora – e credo che questo momento non sia lontano – potremo dire che il futuro, il nostro futuro, il futuro di questo Comitato, di A.A. e di tutto ciò che le persone di buona volontà cercano di fare in questo ambito sarà completamente assicurato.
Grazie.
Indice delle pagine della storia di AA
Come in tante cose, specialmente per noi alcolisti, la nostra Storia è il nostro Bene Più Prezioso! Ognuno di noi è arrivato alla porta di AA con un’intensa e lunga “Storia di Cose Che Non Funzionano”. Oggi, in AA e nella Recupero, la nostra Storia si è arricchita di un’intensa e lunga “Storia di Cose Che FUNZIONANO!” E non rimpiangeremo il passato né vorremo chiuderci la porta alle spalle!
Continua a tornare!
Un giorno alla volta!

