Chiediamolo a Bill W.

“I brani riportati di seguito sono tratti da vari discorsi e articoli di Bill Wilson e su Bill Wilson, e sono stati raccolti da Jim B. Rivelano una ricchezza di pensieri e intuizioni del cofondatore di A.A. riguardo ai seguenti temi:”
1 – Il concetto di malattia
2 – L’ossessione mentale
3 – Come funziona AA?
4 – Un’esistenza continuata
5 – Il 12° Passo nei primi tempi di AA
6 – Che fine ha fatto Ebby?
7 – Informazioni sul Oxford Group
8 – Agnostici e Dio
9 – Medicina, religione e AA
10 – Le origini delle Tradizioni
11 – Ulteriori informazioni sulle Tradizioni
12 – La Conferenza del Servizio Generale
13 – AA e altre organizzazioni
14 – I 12 Concetti
15 – Ricordando i nostri primi amici
16 – Gli alcolisti sono “diversi”?
17 – È tutta esperienza di Bill Wilson?
18 – “Un problema di crescita rapida?”
19 – L’esperienza spirituale di Bill Wilson
20 – I primi tempi di AA
21 – Conosciamo l’AA #3
22 – Altre informazioni sul Grande Libro
23 – Sant’Ignazio e i 12 Passi
24 – L’influenza di Padre Dowling
25 – Ancora sulle Tradizioni
26 – Il finanziamento del GSO
27 – Un “governo” in AA?
28 – Tossicodipendenti e AA
29 – Diritto di appello
30 – Gli alcolisti sono “nevrotici”?
31 – Che cos’è l’alcolismo?
32 – AA è una religione?
33 – Qual è la percentuale di successo di AA?
34 – Il contributo di Carl Jung
35 – Il messaggio di Ebby a Bill
36 – Il clero e AA
37 – AA e la comunità
38 – Breve storia del GSO
39 – Il legame con i Rockefeller
40 – I Tre Patrimoni
41 – Ubriachi alle riunioni AA?
1D – Come giustificate il definire l’alcolismo una malattia anziché una responsabilità morale? (Il concetto di malattia)
1R – Agli albori della storia di AA, sorsero interrogativi del tutto legittimi tra i teologi. Vi era un certo signor Henry Link, autore de “Il ritorno alla religione” (Macmillan Co., 1937). Un giorno ricevetti una sua telefonata. Espresse forte contrarietà alla posizione AA che considerava l’alcolismo una malattia. Secondo lui, questo concetto sottraeva agli alcolisti la responsabilità morale. Aveva già espresso questa critica verso gli psichiatri sull’American Mercury. E ora, dichiarò, era intenzionato a attaccare con veemenza anche AA.
Mi affrettai a precisare che noi di AA non utilizzavamo il concetto di malattia per esonerare i nostri membri dalla responsabilità morale. Al contrario, facevamo leva sul carattere fatale della malattia per addossare al sofferente la più grave forma di responsabilità morale.
Aggiunsi che nelle fasi iniziali della loro dipendenza, molti alcolisti erano indubbiamente colpevoli di irresponsabilità e intemperanza. Ma quando sopraggiungeva la fase del bere compulsivo, la vera e propria follia alcolica, non potevano più essere considerati pienamente responsabili delle loro azioni.
A quel punto sviluppavano una forma di follia che li condannava a bere nonostante ogni loro sforzo; sviluppavano una sensibilità fisica all’alcol che li avrebbe condotti inevitabilmente alla follia definitiva e alla morte. Quando veniva loro spiegata questa realtà, venivano posti sotto fortissima pressione per accettare il programma morale e spirituale di rigenerazione di AA – i nostri Dodici Passi.
Fortunatamente, il signor Link rimase soddisfatto di questa spiegazione dell’uso che facevamo del concetto di malattia dell’alcolista. Con piacere posso dire che quasi tutti i teologi che in seguito hanno esaminato la questione hanno concordato con questa posizione originaria.
Sebbene sia evidente che nella maggior parte dei casi il libero arbitrio riguardo all’alcol sia praticamente scomparso, noi di AA sottolineiamo come permanga ampio margine di libero arbitrio in altri ambiti. Occorre infatti una grande dose di buona volontà, e uno sforzo notevole della volontà stessa, per accettare e praticare il programma AA.
È proprio attraverso questo esercizio della volontà che l’alcolista si apre alla grazia che può liberarlo dalla sua ossessione per il bere.
(N.C.C.A. ‘Blue Book’, Vol.12, 1960)
2D – Cosa si intende per ossessione mentale e il carattere ossessivo dell’alcolismo?
2R – Per come lo comprendo, tutti noi nasciamo con la libertà di scelta. Il grado di questa libertà varia da persona a persona, e da ambito a ambito della nostra vita. Nel caso delle persone nevrotiche, i nostri istinti assumono schemi e direzioni particolari, a volte così compulsivi da non poter essere spezzati da un normale sforzo di volontà. La compulsione dell’alcolista a bere è proprio così.
Prendiamo il mio caso: come fumatore, ho un’abitudine profondamente radicata – sono quasi un dipendente. Ma non credo che questa abitudine sia una vera ossessione. Senza dubbio potrei smettere con un atto di volontà. Se il fumo mi causasse gravi danni, probabilmente riuscirei a rinunciarvi. Se finissi ripetutamente al Bellevue Hospital per colpa del fumo, dubito che ci tornerei molte volte prima di smettere. Ma con il mio alcolismo… beh, quella era tutta un’altra storia. Nessun desiderio di smettere, nessuna punizione sarebbe bastata a farmi smettere. Quello che era un’abitudine al bere era diventato un’ossessione al bere – una vera follia.
Forse dovremmo approfondire un po’ il carattere ossessivo dell’alcolismo. Quando la nostra fratellanza aveva circa tre anni, alcuni di noi incontrarono il dottor Lawrence Kolb, allora Assistente del Surgeon General degli Stati Uniti. Disse che il nostro resoconto sui progressi gli aveva dato la prima speranza per gli alcolisti in generale. Poco prima, il Dipartimento della Salute Pubblica degli Stati Uniti aveva pensato di fare qualcosa per la situazione degli alcolisti. Dopo un attento esame del carattere ossessivo del nostro male, avevano rinunciato. Anzi, il dottor Kolb riteneva che i tossicodipendenti avessero prospettive molto migliori. Così il governo aveva costruito un ospedale per il loro trattamento a Lexington, Kentucky. Ma per gli alcolisti… beh, semplicemente non c’era alcuna speranza, pensava lui.
Eppure, molte persone continuano a insistere che l’alcolista non è un malato – che è semplicemente debole o capriccioso, e peccaminoso. Ancora oggi spesso sentiamo dire: “Quel ubriacone potrebbe guarire se lo volesse”.
Non c’è dubbio, inoltre, che il carattere profondamente ossessivo del bere dell’alcolista sia oscurato dal fatto che bere è un’abitudine socialmente accettata. Al contrario, rubare, o diciamo fare shoplifting, non lo è. Praticamente tutti hanno sentito parlare di quella forma di follia chiamata cleptomania. Spesso i cleptomani sono persone splendide sotto ogni altro aspetto. Eppure sono sotto una compulsione assoluta a rubare – solo per il brivido. Un cleptomane entra in un negozio e intasca un articolo. Viene arrestato e finisce alla stazione di polizia. Il giudice gli infligge una condanna. Viene stigmatizzato e umiliato. Proprio come l’alcolista, giura che mai e poi mai lo farà di nuovo.
Una volta uscito di prigione, si aggira per la strada e passa davanti a un grande magazzino. Inesorabilmente, è attratto all’interno. Vede, per esempio, un camion dei pompieri rosso di latta, un giocattolo per bambini. Dimentica all’istante tutta la sua miseria in prigione. Inizia a razionalizzare. Dice: “Beh, questo piccolo camion dei pompieri non ha un vero valore. Il negozio non lo sentirà la mancanza”. Così intasca il giocattolo, il detective del negozio lo becca, ed è di nuovo in galera. Tutti riconoscono questo tipo di furto come pura follia.
Ora, confrontiamo questo comportamento con quello di un alcolista. Anche lui è finito in prigione. Ha già perso famiglia e amici. Soffre di un pesante stigma e senso di colpa. È stato fisicamente torturato dai suoi postumi da sbornia. Come il cleptomane, giura che non si caccerà più in questa situazione. Forse sa davvero di essere un alcolista. Può capire cosa significa ed essere pienamente consapevole del terribile rischio di quel primo drink.
Una volta uscito di prigione, l’alcolista si comporta esattamente come il cleptomane. Passa davanti a un bar e alla prima tentazione può dire: “No, non devo entrare lì dentro; l’alcol non fa per me”. Ma quando arriva al prossimo posto dove si beve, è sopraffatto da una razionalizzazione. Forse dice: “Beh, una birra non mi farà male. Dopotutto, la birra non è alcol”. Completamente dimentico delle sue recenti miserie, entra. Prende quel fatale primo drink. Il giorno dopo, la polizia lo arresta di nuovo. I suoi concittadini continuano a dire che è debole o capriccioso. In realtà è pazzo tanto quanto lo è mai stato il cleptomane. A questo stadio, il suo libero arbitrio riguardo all’alcolismo è evaporato. Non può essere ritenuto pienamente responsabile del suo comportamento. (The N.C.C.A. ‘Blue Book’, Vol. 12, 1960)
3D – Come funziona esattamente A.A.?
3R – Non posso rispondere completamente a questa domanda. Molte tecniche A.A. sono state adottate dopo un periodo di dieci anni di prove ed errori, che ha portato a risultati interessanti. Ma, come profani, dubitiamo della nostra capacità di spiegarli. Possiamo solo dirvi cosa facciamo e cosa sembra accaderci, dal nostro punto di vista.
Fin dall’inizio vorremmo fosse chiaro che A.A. è, per così dire, una sorta di strumento combinato, che attinge alle risorse della medicina, della psichiatria, della religione e della nostra esperienza personale di bevitori in recupero. Invano cercherete un nuovo singolo principio fondamentale. Abbiamo semplicemente razionalizzato vecchi e collaudati principi di psichiatria e religione in forme che l’alcolista possa accettare. E poi abbiamo creato una società di suoi simili dove può applicare con entusiasmo questi stessi principi su se stesso e sugli altri sofferenti.
Inoltre, abbiamo cercato di sfruttare al massimo il nostro grande vantaggio naturale. Questo vantaggio è, ovviamente, la nostra esperienza personale come bevitori che si sono ripresi. Quante volte medici e religiosi alzano le braccia quando, dopo estenuanti trattamenti o esortazioni, l’alcolista insiste: “Ma lei non mi capisce. Lei non ha mai bevuto seriamente, quindi come potrebbe? Né può mostrarmi molti che si sono ripresi”.
Ora, quando un alcolista che è guarito parla con un altro che non lo è, tali obiezioni sorgono raramente, perché il nuovo arrivato vede in pochi minuti che sta parlando con un’anima affine, qualcuno che comprende. Né il membro A.A. in recupero può essere ingannato, perché conosce ogni trucco, ogni razionalizzazione del gioco del bere. Così le solite barriere crollano fragorosamente. La fiducia reciproca, quell’elemento indispensabile di ogni terapia, segue con la certezza del giorno dopo la notte. E se questo rapporto assolutamente necessario non si instaura subito, quasi certamente si svilupperà quando il nuovo arrivato avrà incontrato altri A.A. Qualcuno, come diciamo noi, “si identificherà con lui”.
Non appena ciò accade, abbiamo una buona possibilità di proporre al nostro interlocutore quegli stessi elementi essenziali che voi medici avete a lungo sostenuto, e il bevitore problematico trova la nostra società un luogo congeniale per metterli in pratica per sé e per i suoi compagni alcolisti. Per la prima volta dopo anni si sente compreso e si sente utile; straordinariamente utile, infatti, quando tocca a lui promuovere il recupero degli altri. Non importa cosa pensi di lui il mondo esterno, sa che può guarire, perché si trova in mezzo a decine di casi peggiori del suo che hanno raggiunto l’obiettivo. E ci sono altri casi esattamente come il suo – una sequela di testimonianze che di solito lo travolge. Se non cede subito, quasi sicuramente lo farà più tardi quando Barleycorn [l’alcol] accenderà sotto di lui un fuoco ancora più ardente, bloccando così tutte le altre vie di uscita da lui così attentamente pianificate.
Chi parla ricorda settantacinque fallimenti durante i primi tre anni di A.A. – persone che abbiamo completamente abbandonato. Negli ultimi sette anni, sessantadue di queste persone sono tornate da noi, la maggior parte con successo. Ci dicono che sono tornate perché sapevano che sarebbero morte o impazzite se non l’avessero fatto. Dopo aver provato tutto il possibile ed aver esaurito le loro razionalizzazioni preferite, sono tornate e hanno preso la loro medicina. È per questo che non abbiamo mai bisogno di evangelizzare gli alcolisti. Se ancora sani di mente, tornano, una volta che sono stati ben esposti in A.A.
Per ricapitolare, Alcolisti Anonimi ha fatto due importanti contributi agli esistenti programmi di psichiatria e religione. Questi sono, a nostro avviso, gli anelli mancanti nella catena del recupero:
- La nostra capacità, come ex-bevitori, di ottenere la fiducia del nuovo arrivato – di “costruire una linea di trasmissione verso di lui”.
- L’approntamento di una società di ex-bevitori in cui il nuovo arrivato può confrontarsi ed applicare con successo i principi della medicina e della religione a se stesso e agli altri.
Per quanto riguarda noi A.A., questi principi, che usiamo ogni giorno, sembrano andare sorprendentemente d’accordo. (N.Y. State J. Med., Vol.44, 15 agosto 1944).
4D – Come può A.A. garantire al meglio la sua continuità?
4R – Fin dall’inizio dei tempi conosciuti, molte società e nazioni civili si sono succedute. In quelle grandi che hanno lasciato un segno positivo, a differenza di quelle che hanno lasciato un segno negativo, c’è sempre stato un senso della storia, uno scopo vero, costante ed elevato, e c’è sempre stato un senso del destino.
Nelle società che non sono riuscite a lasciare un’impronta luminosa negli annali del mondo, c’è sempre stato un senso della storia falso o vanaglorioso, uno scopo errato o inadeguato e sempre la presunzione di un destino infinito, glorioso ed esclusivo.
Nelle società che hanno lasciato un’impronta di bontà nel tempo, il senso della storia non era motivo di orgoglio o gloria; era la sostanza dell’apprendimento dall’esperienza del passato. Nello scopo di tali società c’è sempre stata verità e costanza, ma mai la supposizione che la società avesse compreso tutta la verità – o la verità superiore. E nel senso del destino non c’era presunzione, nessuna supposizione che una società, nazione o cultura sarebbe durata per sempre e avrebbe raggiunto glorie maggiori. Ma c’era sempre un senso del dovere da compiere, qualunque fosse il destino assegnato dalla provvidenza a quella società per il miglioramento del mondo.
Questo è il bivio in cui noi di A.A. ci troviamo. Questo è un buon momento per riesaminare quanto bene abbiamo considerato la nostra storia di A.A. e quanto ne abbiamo beneficiato, quali false intuizioni o false glorie potremmo aver tratto dalla storia – a scapito del nostro futuro. È un momento per esaminare lo scopo di questa Società. In effetti, siamo molto fortunati a poter definire il nucleo di tale scopo con una sola parola: sobrietà.
Tuttavia, capimmo molto presto che la sobrietà dall’alcol non poteva mai essere raggiunta senza anche una sobrietà e una maggiore quiete nelle false motivazioni che erano alla base del nostro bere.
Quando i Dodici Passi furono formulati – senza alcuna reale esperienza e quindi sicuramente sotto una certa Guida – ci furono date le chiavi per una sobrietà dalle implicazioni più ampie. Siamo stati benedetti con una definizione concreta dello scopo, ma, nonostante tutta la sua concretezza, potremmo comunque abusarne e usarla male in modo molto naturale.
A volte iniziamo a pensare che forse, secondo la promessa scritturale, i primi saranno ultimi e gli ultimi – cioè noi – saranno davvero i primi. Questa sarebbe davvero una presunzione molto pericolosa e non dovremmo mai cederle. Se lo facciamo, competiamo nella storia con altre società che sono state abbastanza avventate da supporre di avere il monopolio della verità o di essere in qualche modo superiori ad altri tentativi degli uomini di pensare e associarsi con amore e armonia.
Possiamo guardare al nostro destino senza violare il nostro principio di vivere un giorno alla volta. Intendiamo che, emotivamente, ognuno nella sua vita personale non deve rimpiangere troppo le glorie passate nel presente, né presumere sul futuro. Ci occuperemo degli affari del giorno, ma cercheremo di cogliere sempre più verità dalle lezioni della nostra storia, non le lezioni dei nostri successi ma quelle delle nostre defezioni, fallimenti e delle terribili emozioni che possono scatenarsi contro di noi. Perché queste, in effetti, sono le materie prime che Dio ha usato per forgiare questo strumento ancora piuttosto piccolo chiamato Alcolisti Anonimi. Quindi possiamo guardare al destino e possiamo chiederci e specularvi un po’ – se non presumiamo di fare la parte di Dio. (G.S.C., 1961)
5D – Quando hai smesso di bere, come ti approcciavi agli alcolisti e col tempo hai cambiato quell’approccio?
5R – Partii all’attacco per “guarire” gli alcolisti in massa. Ero spinto da un motore turbo, le difficoltà non contavano nulla. La smisurata presunzione del mio progetto non mi sfiorò nemmeno. Portai avanti l’assalto per sei mesi; la mia casa era piena di alcolisti. Prediche a decine non produssero il minimo risultato. Nessuno di loro comprendeva. Deludentemente, il mio amico seduto al tavolo della mia cucina, più malato di quanto capissi, si interessava poco agli altri alcolisti. Questo fatto forse causò le sue infinite ricadute successive. Qui realizzai che lavorare con gli alcolisti aveva un enorme impatto sulla mia stessa sobrietà. Ma perché nessuno dei miei “possibili nuovi membri” smetteva di bere?
Piano piano emersero i problemi. Come un fanatico religioso, ero ossessionato dall’idea che tutti dovessero avere un’”esperienza spirituale” identica alla mia. Avevo dimenticato che ne esistevano molte varietà. Così, i miei fratelli alcolisti mi fissavano increduli o mi prendevano in giro per il mio “flash mistico”. Questo aveva rovinato la potente identificazione che con loro era così facile stabilire. Ero diventato un predicatore. Era chiaro che il metodo andava semplificato. Ciò che a me era arrivato in sei minuti, in altri poteva richiedere sei mesi. Dovevo imparare che le parole hanno un peso, che bisogna essere prudenti. Era anche evidente che qualcosa non funzionava nella tecnica della “deflazione”. Mancava decisamente di forza.
Ragionando sul fatto che l’”ossessione” o compulsione dell’alcolista doveva provenire da un livello profondo, ne seguiva che anche la deflazione dell’ego doveva andare in profondità, altrimenti non poteva esserci una liberazione fondamentale. Apparentemente, la pratica religiosa non avrebbe toccato l’alcolista finché la sua condizione di fondo non fosse stata preparata. Fortunatamente, tutti gli strumenti necessari erano già a portata di mano. Voi medici ce li avete forniti.
Spostammo l’enfasi dal “peccato” alla “malattia” — il “male fatale”, l’alcolismo. Citavamo i medici: l’alcolismo era più letale del cancro; consisteva in un’ossessione della mente unita a una crescente sensibilità del corpo. Erano i nostri due mostri: follia e morte. Ci appoggiammo pesantemente alla dichiarazione del Dr. Jung sull’apparente disperazione della condizione, e poi riversammo quel verdetto devastante su ogni ubriacone a portata di mano. Per l’uomo moderno, la scienza è onnipotente; è un dio. Quindi, se la scienza poteva emettere una condanna a morte per un ubriaco, e noi inserivamo quella sentenza nel nostro messaggio, forse lo avremmo frantumato del tutto. Forse allora si sarebbe rivolto al Dio dei teologi, non avendo altro posto dove andare. Qualunque fosse la verità in questo stratagemma, aveva indubbiamente un merito pratico. Immediatamente, l’atmosfera cambiò. Le cose iniziarono a migliorare. (Amer. J. Psychiat., Vol. 106, 1949)
6D – Che cosa è successo al tuo sponsor, Ebby?
6R – Fu Ebby a portarmi il messaggio che salvò la mia vita e quella di innumerevoli altre persone.
Per gratitudine e vecchia amicizia, mia moglie Lois e io invitammo Ebby a vivere a casa nostra poco dopo che io mi ero sobriizzato. Figlio di una famiglia benestante di Albany, non aveva mai imparato un mestiere, quindi era al verde e dovette ricominciare da zero. Naturalmente, erano circostanze difficili. Ebby rimase con noi circa un anno e mezzo. Concentrato a rifarsi una vita, si interessò poco ad aiutare altri alcolisti. A poco a poco, cominciò quella razionalizzazione che abbiamo visto così spesso. Iniziò a dire che, se avesse avuto la storia d’amore giusta e il lavoro giusto, tutto sarebbe andato bene. Alla fine, cadde in tentazione. Non gli dispiacerà che lo dica: fa parte della sua storia oggi.
Per molti anni, il mio vecchio amico Ebby oscillò tra sobrietà e ricadute. A volte riusciva a stare sobrio per un anno o più. Provò a vivere di nuovo con Lois e me per un altro periodo considerevole, ma evidentemente non servì a nulla. Forse addirittura lo ostacolammo. Man mano che l’A.A. cresceva, la sua posizione divenne difficile. Per molto tempo, le cose andarono di male in peggio.
Circa sei anni fa, i gruppi del Texas decisero di provare a intervenire. Ebby fu spedito senza sosta a Dallas e messo in una struttura di disintossicazione di A.A. In quel nuovo ambiente, lontano dai suoi vecchi fallimenti, fece un recupero splendido. A parte una ricaduta avvenuta circa un anno dopo il suo arrivo laggiù, da allora è completamente sobrio. Questa è una delle più grandi soddisfazioni che ho avuto dalla nascita dell’A.A., e molti altri membri possono dire lo stesso.
(N.C.C.A. ‘Blue Book,’ Vol.12, 1960)
7D – Cosa imparò l’A.A. dall’Oxford Group e perché lo lasciò?
7R – Il Primo Passo dei A.A. derivò principalmente dal mio medico, il dottor Silkworth, dal mio sponsor Ebby e dal suo amico, e dal dottor Jung di Zurigo. Mi riferisco all’impotenza medica di fronte all’alcolismo – il nostro “essere impotenti” di fronte all’alcol.
Il resto dei Dodici Passi proviene direttamente dagli insegnamenti dell’Oxford Group che si applicavano specificamente a noi. Naturalmente questi insegnamenti non erano nulla di nuovo; avremmo potuto trovarli nella vostra stessa Chiesa. Erano, in sostanza, un esame di coscienza, una confessione, un risarcimento, l’aiuto agli altri e la preghiera.
Devo riconoscere il nostro enorme debito verso l’Oxford Group. È stata una fortuna che insistessero particolarmente sui principi spirituali di cui avevamo bisogno. Ma, in tutta onestà, va anche detto che molti dei loro atteggiamenti e pratiche non funzionavano affatto per noi alcolisti. Questi elementi furono rifiutati uno dopo l’altro e portarono al nostro successivo distacco da questo movimento per formare una fratellanza nostra – l’odierna Alcolisti Anonimi.
Forse dovrei spiegare più dettagliatamente perché sentimmo il bisogno di separarci da loro. Innanzitutto, l’atmosfera del loro movimento non era adatta a noi alcolisti. Erano aggressivamente evangelici. Cercavano di rivitalizzare il messaggio cristiano in modo da “cambiare il mondo”. La maggior parte di noi alcolisti era stata sottoposta alla pressione dell’evangelizzazione e non ci era mai piaciuta. L’idea di salvare il mondo – quando era ancora molto incerto se potessimo salvare noi stessi – sembrava meglio lasciarla ad altri.
A causa di alcuni loro termini e di un’enorme pressione, l’Oxford Group imponeva un ritmo morale troppo veloce, specialmente per i nostri nuovi venuti. Parlavano costantemente di Purezza Assoluta, Altruismo Assoluto, Onestà Assoluta e Amore Assoluto. Sebbene una solida teologia debba sempre avere i suoi valori assoluti, l’Oxford Group dava l’impressione che si dovesse raggiungere queste mete in breve tempo, magari entro giovedì prossimo! Forse non intendevano creare tale impressione, ma questo era l’effetto. A volte, la loro “testimonianza” pubblica era di un tipo che ci imbarazzava. Credevano anche che “convertendo” persone prominenti alle loro idee, avrebbero accelerato la salvezza di molti meno prominenti. Questo atteggiamento difficilmente poteva interessare l’alcolista medio, che non era certo una persona illustre.
L’Oxford Group aveva anche atteggiamenti e pratiche che somigliavano ad un’autorità altamente coercitiva. Queste venivano esercitate da una “squadra” di membri più anziani. Si riunivano in meditazione e ricevevano indicazioni specifiche per la condotta di vita dei nuovi arrivati. Queste indicazioni potevano coprire qualsiasi situazione, dalla più banale alla più seria. Se le direttive non venivano seguite, entrava in azione un meccanismo di controllo. Consisteva in una sorta di freddezza e distacco che faceva sentire i recalcitranti indesiderati. Ad esempio, una volta una di queste “squadre” ricevette un’indicazione sul mio conto secondo la quale non avrei più dovuto lavorare con gli alcolisti. Questo non potevo accettarlo.
Un altro esempio: quando entrai in contatto con l’Oxford Group, ai cattolici era permesso partecipare ai loro incontri perché erano strettamente non confessionali. Ma dopo un po’ la Chiesa Cattolica proibì ai suoi membri di partecipare, e la ragione sembrava valida. Attraverso le “squadre” dell’Oxford Group, i membri della Chiesa Cattolica ricevevano direttive specifiche per la loro vita; spesso veniva loro insinuato che la loro Chiesa fosse diventata antiquata e avesse bisogno di essere “cambiata”. Spesso veniva suggerito di fare donazioni all’Oxford Group. In un certo senso, questo equivaleva a mettere i cattolici sotto una giurisdizione ecclesiastica separata. A quel tempo, c’erano pochi cattolici nei nostri gruppi di alcolisti. Ovviamente, non potevamo avvicinare altri cattolici sotto l’egida dell’Oxford Group. Questa fu un’altra ragione, fondamentale, per il ritiro del nostro gruppo di alcolisti dall’Oxford Group, nonostante il nostro grande debito verso di loro. (N.C.C.A. ‘Blue Book’, Vol. 12, 1960)
Un’Altra Risposta
7R – Il primo gruppo di A.A. era nato, ma ancora non avevamo un nome. Quelli furono gli anni del volo alla cieca, quei due o tre anni che seguirono. Un passo falso in quei giorni era una terribile calamità. Ci guardavamo l’un l’altro chiedendoci chi sarebbe stato il prossimo. Fallimento! Fallimento! Il fallimento era il nostro compagno costante.
Tornai a casa da Akron con un’umiltà più consona e meno prediche, e alcune persone iniziarono a venire da noi, qualcuna a Cleveland e Akron. Ero tornato da poco negli affari, ma ancora una volta Wall Street crollò e mi portò con sé, come al solito. Così partii per l’Ovest per vedere se c’era qualcosa che potevo fare in quelle zone. Io e il Dr. Bob ovviamente ci tenevamo in contatto tramite lettere, ma fu solo in un pomeriggio di fine autunno del 1937 che raggiunsi la sua casa e mi sedetti nel suo salotto. Ricordo quella scena come se fosse ieri: prendemmo una matita e un foglio e iniziammo a scrivere i nomi di quelle persone ad Akron, New York e quel piccolo gruppo a Cleveland che erano rimaste sobrie per un po’. Nonostante il gran numero di fallimenti, alla fine ci rendemmo conto che quaranta persone avevano ottenuto una vera liberazione e avevano un periodo significativo di sobrietà alle spalle. Non dimenticherò mai quell’ora grandiosa e umile di consapevolezza. Bob e io vedemmo per la prima volta che una nuova luce aveva iniziato a splendere su di noi alcolisti, aveva iniziato a splendere sui figli della notte.
Quella consapevolezza portò con sé un’enorme responsabilità. Naturalmente, pensammo subito: come possiamo far sì che ciò che noi quaranta sappiamo arrivi ai milioni che non lo sanno? A pochi passi da questa casa ci devono essere altri come noi, tormentati da questa ossessione. Come faranno a saperlo? Come trasmetteremo questo messaggio?
Fino a quel momento, come saprete, l’A.A. era estremamente semplice. Rispondeva pienamente alla semplicità che ancora oggi molti richiedono. Credo che noi vecchi membri proviamo tutti una certa nostalgia per quei giorni sereni di semplicità, quando, grazie a Dio, non c’erano fondatori, non c’erano soldi, non c’erano sedi, solo salotti. Annie e Lois che preparavano torte e caffè per quegli ubriaconi in salotto. Non avevamo nemmeno un nome! Ci chiamavamo semplicemente un gruppo di ubriaconi che cercavano di smettere di bere. Eravamo più anonimi di quanto lo siamo oggi. Sì, era tutto molto semplice. Ma ora c’era una nuova consapevolezza: qual era la responsabilità di noi quaranta verso quelli che non sapevano?
Beh, io avevo fatto parte del mondo degli affari, un mondo piuttosto frenetico, il mondo di Wall Street. Sospetto di essere stato un buon promoter e un po’ un venditore, probabilmente meglio di quanto lo sia oggi. Così iniziai a pensare in termini imprenditoriali. Avevamo scoperto che gli ospedali non ci volevano, noi bevitori, perché eravamo pessimi pagatori e non guarivamo mai. Perché allora non avere i nostri ospedali? Immaginai una grande catena di centri di disintossicazione e ospedali diffusi in tutto il paese. Probabilmente avrei potuto vendere azioni e, dannazione, avremmo potuto mangiare oltre a salvare gli alcolisti.
Inoltre, io e il Dr. Bob ricordammo che era stato un processo molto lento e faticoso far diventare sobrie quaranta persone: ci erano voluti circa tre anni. E in quei giorni noi vecchi membri avevamo la vanagloria di credere che nessun altro avrebbe potuto fare questo lavoro al posto nostro. Così naturalmente pensammo a missionari alcolisti—senza nulla togliere ai missionari, ovviamente. In altre parole, avremmo finanziato qualcuno per un anno o due, lo avremmo mandato a Chicago, St. Louis, San Francisco e così via, per avviare piccoli centri, mentre noi avremmo finanziato questa catena di centri di disintossicazione e li avremmo portati lì dentro. Sì, ci sarebbero voluti missionari e ospedali! Poi venne un’osservazione che aveva un po’ più di senso.
Sembrava chiaro che ciò che avevamo scoperto andasse messo per iscritto. Avevamo bisogno di un libro. Così il Dr. Bob convocò una riunione per la sera successiva, e in quel piccolo incontro di una ventina di persone fu presa una decisione storica che influenzò profondamente il nostro destino. Era nel salotto di un amico non alcolista che ci permetteva di incontrarci lì perché il suo salotto era più grande del salotto degli Smith e ci voleva bene. Anch’io ricordo quel giorno come se fosse ieri.
Così, Smithy e io spiegammo questo nuovo obbligo che ricadeva su noi quaranta. Come avremmo portato questo messaggio a quelli che non lo conoscevano? Iniziai a concludere il mio discorso da promoter sugli ospedali, i missionari e il libro, e vidi i loro volti cadere. Immediatamente, l’assemblea si divise in tre parti significative. C’era la fazione dei promoter, di cui facevo decisamente parte. C’era la fazione indifferente, e poi c’era quella che potreste chiamare la fazione ortodossa.
La fazione ortodossa era molto vocale e disse, con buone ragioni: «Ascoltate! Se ci mettiamo in affari, siamo perduti. Questo funziona perché è semplice, perché ci lavorano tutti, perché nessuno ci guadagna nulla e perché nessuno ha secondi fini, se non la propria sobrietà e quella dell’altro. Se pubblichiamo un libro, avremo infinite discussioni su quel maledetto libro. Ci farà entrare nel business». E il punto cruciale della fazione ortodossa era che persino Nostro Signore non aveva un libro.
Beh, era impressionante, e gli eventi dimostrarono che gli ortodossi avevano praticamente ragione, ma, grazie a Dio, non del tutto. Poi c’erano gli indifferenti, che pensavano: «Se Smitty e Bill pensano che dovremmo fare queste cose, per noi va bene». Così gli indifferenti, insieme ai promoter, superarono in numero gli ortodossi e dissero: «Se vuoi fare queste cose, Bill, torna a New York, dove ci sono un sacco di soldi, prendi i fondi e poi vedremo».
Beh, a quel punto ero su di giri, sapete. I promoter possono essere su di giri per qualcosa di diverso dall’alcol. Stavo già parlando del più grande sviluppo medico, spirituale e sociale di tutti i tempi. Pensateci, quaranta ubriaconi.
(Chicago, Ill., Febbraio 1951)
8D – E l’alcolista che dice di non poter credere in Dio?
8R – Molti di loro arrivano in A.A. e dicono di sentirsi in trappola. Con questo intendono dire che li abbiamo convinti di essere gravemente malati, ma non riescono ad accettare la fede in Dio e nella Sua grazia come mezzo di recupero. Fortunatamente, questo non si rivela affatto un dilemma insormontabile. Suggeriamo semplicemente al nuovo arrivato di adottare un approccio rilassato e una mente aperta, e di mettere in pratica quelle parti dei Dodici Passi che il buon senso di chiunque raccomanderebbe.
Può certamente ammettere di essere un alcolista, di dover fare un inventario morale, di dover discutere i propri difetti con un’altra persona, di dover fare ammenda per i danni causati e di poter essere utile ad altri alcolisti.
Sottolineiamo l’importanza della “mente aperta”: almeno che ammetta la possibilità di un “Potere Superiore”. Può certamente riconoscere che lui stesso non è Dio, né lo è l’umanità in generale. Se lo desidera, può affidarsi al proprio gruppo A.A. Quel gruppo è senza dubbio un “Potere Superiore”, almeno per quanto riguarda la guarigione dall’alcolismo.
Se accetta queste condizioni ragionevoli, si accorgerà di essere liberato dalla compulsione a bere; scoprirà che le sue motivazioni sono cambiate in modo sproporzionato rispetto a ciò che avrebbe potuto ottenere semplicemente frequentandoci o praticando un po’ più di onestà, umiltà, tolleranza e disponibilità. A poco a poco, si renderà conto che un “Potere Superiore” è davvero all’opera. Nel giro di qualche mese, o al massimo un anno o due, parlerà liberamente di Dio come lo concepisce. Ha ricevuto il dono della grazia di Dio—e lo sa.
(N.C.C.A., Libro Blu, Vol. 12, 1960)
9D – In che modo la medicina e la religione differiscono nel loro approccio all’alcolista?
9R – Differiscono sotto un aspetto fondamentale. Quando il medico ha mostrato all’alcolista le difficoltà alla base del suo problema e gli ha prescritto un programma di riadattamento, gli dice: “Ora che hai capito cosa serve per guarire, non devi più dipendere da me. Devi contare su te stesso. Tocca a te agire.”
È chiaro, quindi, che l’obiettivo del medico è rendere il paziente autosufficiente e dipendente principalmente, se non totalmente, da se stesso.
La religione, invece, non procede in questo modo. Afferma che la fiducia in se stessi non basta, neppure per un non-alcolista. Il religioso sostiene che dobbiamo trovare e affidarci a un Potere Superiore — Dio. Raccomanda la preghiera e suggerisce apertamente un atteggiamento di totale abbandono a Colui che governa ogni cosa. Attraverso questa via, scopriamo una forza che va ben oltre le nostre sole risorse.
Dunque, la differenza principale si può riassumere così:
- La medicina dice: “Conosci te stesso, sii forte e sarai in grado di affrontare la vita.”
- La religione dice: “Conosci te stesso, chiedi a Dio la forza e diventerai veramente libero.”
In Alcolisti Anonimi, la persona che si avvicina al programma può provare entrambi i metodi. A volte elimina “l’aspetto spirituale” dai Dodici Passi e si affida unicamente all’onestà, alla tolleranza e al lavoro con gli altri. Ma è interessante notare che la fede arriva sempre a coloro che seguono questo approccio semplice con mente aperta — e nel frattempo, rimangono sobri.
Tuttavia, se il contenuto spirituale dei Dodici Passi viene apertamente rifiutato, difficilmente riescono a mantenersi sobri. Questa è la nostra esperienza in A.A. Sottolineiamo l’aspetto spirituale semplicemente perché migliaia di noi hanno scoperto che non possiamo farne a meno.
(N.Y. State J. Med., Vol. 44, 15 agosto 1944)
10D – Quali furono le condizioni che portarono alle Dodici Tradizioni?
10R – Dopo la pubblicazione dell’articolo di Jack Alexander nel 1941, il nostro piccolo ufficio di New York fu inondato da migliaia di richieste disperate da parte di alcolisti, delle loro mogli, dei loro datori di lavoro. In quel momento, uscimmo dall’infanzia ed entrammo nella fase successiva: l’adolescenza.
Ebbene, l’adolescenza, per definizione, è un periodo turbolento della giovinezza, e noi non facemmo eccezione. Mentre i gruppi cominciavano a formarsi in tutto il paese, sorsero immediatamente problemi. Scoprimmo con rammarico che sobrietà non equivaleva a santità: un alcolista sobrio era ancora ben lontano dall’essere un santo. Ci rendemmo conto che potevamo covare risentimenti profondi, e che il nostro “rimedio” per l’alcolismo era più efficace di quanto credessimo. Molti di noi si accorsero che potevano lamentarsi a gran voce eppure rimanere sobri. Eravamo coinvolti in lotte meschine per il potere e il prestigio. Alcuni diffidavano del progetto del Libro, gestito da quel tale Wilson, Wilson che porta via i soldi di Rockefeller con un camion parcheggiato davanti a casa sua. E così iniziarono i guai.
Il denaro era entrato in scena, inevitabilmente. Dovevamo affittare sale che non erano gratis, il libro aveva un costo, ogni tanto organizzavamo cene. Sì, il denaro era diventato un fattore da considerare.
Poi, a poco a poco, ci accorgemmo che i gruppi avevano bisogno di organizzarsi: chi sarebbe stato il presidente? Lo avremmo scelto a mano o eletto? Sapete bene quali problemi sorsero, e divennero così gravi che attraversammo un nuovo periodo di “volo alla cieca”. La prima fase di incertezza, ricordate, riguardava la possibilità che l’individuo potesse essere riportato alla sanità, se le forze distruttive in lui potessero essere contenute. Ora, nella nostra adolescenza, cominciavamo a chiederci se le forze distruttive nei gruppi avrebbero lacerato e distrutto la società. Ah, furono giorni angoscianti.
Il nostro piccolo ufficio di New York fu sommerso da lettere di gruppi lontani, nati in zone senza contatto con i centri originali, che affrontavano questi problemi: c’erano persone rilasciate da manicomi (Dio solo sapeva cosa avrebbero combinato!), ex detenuti (ci avrebbero raggirati?), gente strana, e—che ci crediate o no—persone di dubbia moralità. Gli alcolisti “rispettabili” scuotevano la testa: “Questi immorali ci faranno a pezzi!” Cappuccetto Rosso e i lupi cattivi sembravano ovunque. La nostra società sarebbe sopravvissuta?
Intanto cresceva: più gruppi, più membri. A volte i gruppi si dividevano perché i leader erano in conflitto, altre perché erano diventati troppo grandi. Ma attraverso scissioni e suddivisioni, il movimento si espanse sempre più. Dieci anni dopo, era diffuso in trenta paesi.
Da quel caotico periodo adolescenziale emerse chiaramente che avremmo adottato un approccio diverso da quello della società americana. Eravamo convinti, ad esempio, che la sopravvivenza dell’insieme fosse infinitamente più importante di quella del singolo o di un gruppo. Era qualcosa di più grande di ognuno di noi. Cominciammo a credere che, se una massa di alcolisti avesse seguito anche solo parzialmente i Dodici Passi, Dio avrebbe potuto parlare attraverso la loro “coscienza di gruppo”, producendo una saggezza superiore a qualsiasi leadership carismatica.
All’inizio avevamo regole ferree per l’ammissione. Dove sono finite? Ora non abbiamo più paura. Apriamo le braccia e diciamo: “Non importa chi sei o quali problemi hai. Basta che dici: ‘Sono un alcolista e mi interessa’. Ti dichiari membro.” L’idea di appartenenza si è capovolta.
Anni fa pensavamo che la società dovesse occuparsi di ricerca, educazione, fare tutto per gli alcolisti. Ora sappiamo che non è così. Abbiamo un unico scopo: noi, “calzolai”, restiamo al nostro posto, portando il messaggio ad altri alcolisti e lasciando il resto a chi è più competente. Faremo una cosa in modo eccellente, invece di farne molte male.
Così nacquero le Tradizioni. Non sono tradizioni americane. Prendete la nostra politica delle pubbliche relazioni: in America tutto ruota attorno a nomi famosi, pubblicità, eroi. Eppure, il movimento, nella saggezza della sua anima collettiva, capì che quella strada non faceva per noi. La nostra politica è l’anonimato al livello pubblico: niente nomi, principi prima delle personalità. L’anonimato ha un profondo significato spirituale—è la massima protezione del movimento.
Crescendo, la società ha sviluppato il suo modo di vivere: come relazionarci tra noi, come gestire denaro, proprietà, prestigio, autorità e il mondo esterno. Le Tradizioni non nacquero perché io le dettai, ma perché voi, con la vostra esperienza, le plasmaste. Io le ho solo trascritte e, a partire dal 1946, ho cercato di riflettervele.
Un impulso decisivo alle Tradizioni venne dall’uomo che mi ha presentato stasera (Earl T.). Un giorno, dopo che avevamo steso una versione lunga delle Tradizioni (per rispondere ai problemi dei gruppi), venne da me e disse: “Bill, non ti entra in testa che questi alcolisti non amano leggere? Ascolteranno per un po’, ma non leggeranno. Devi sintetizzare le Tradizioni come hai fatto con i Dodici Passi.”
Così, lavorammo insieme a condensarle nella forma attuale. Ormai avevamo abbastanza esperienza per credere che questi principi ci avrebbero uniti finché Dio avesse avuto bisogno di noi. E a Cleveland (1950), settemila di noi dichiararono: “Sì, queste sono le Tradizioni su cui vogliamo basarci, il fondamento sicuro per il futuro.” Così uscimmo dall’adolescenza.
Ancora una volta, l’anno scorso, abbiamo preso il destino per mano.
(Trascritto da registrazione. Chicago, IL, febbraio 1951)
11D – Le Tradizioni sono state ampiamente accettate?
11R – Quando furono scritte per la prima volta all’inizio del 1946, come linee guida provvisorie per aiutarci a restare uniti e funzionare, nessuno vi prestò attenzione, tranne qualche “solito polemico” che mi scrisse chiedendomi cosa diavolo significassero.
Nessuno le considerò minimamente, ma a poco a poco, mentre queste Tradizioni si diffondevano, iniziammo ad avere le nostre schermaglie nelle sedi dei gruppi, i nostri piccoli dissapori, questa difficoltà e quella, e si scoprì che le Tradizioni riflettevano davvero l’esperienza e rappresentavano principi guida. Così presero piede gradualmente, sempre di più, al punto che oggi l’alcolista medio che varca la porta impara subito di cosa si tratta, in che tipo di organizzazione sia effettivamente capitato e da quali principi sono governati il suo gruppo e l’A.A. nel suo insieme.
(Trascritto da registrazione, Fort Worth, TX, 1954)
12D – Qual è il ruolo della Conferenza dei Servizi Generali?
12R – La Conferenza esaminerà i rapporti annuali della Fondazione Alcolisti Anonimi, dell’Ufficio dei Servizi Generali, del Grapevine e della Works Publishing, insieme al resoconto del revisore dei conti. Questi documenti saranno discussi approfonditamente, con eventuali suggerimenti o mozioni relative.
I Fiduciari presenteranno alla Conferenza tutte le questioni rilevanti di politica o finanza che riguardano la Sede centrale di A.A. o l’intera Comunità. Dopo averle discusse, la Conferenza formulerà raccomandazioni e delibere appropriate.
Particolare attenzione sarà dedicata alle violazioni della nostra Tradizione che potrebbero compromettere A.A. a livello generale. Se necessario, la Conferenza pubblicherà risoluzioni per deplorare tali deviazioni.
Poiché i lavori si svolgeranno nell’arco di un weekend di tre giorni, i Delegati avranno modo di confrontarsi su ogni possibile problematica. Avranno inoltre l’opportunità di conoscersi meglio tra loro e con il personale della Sede centrale, visitando gli uffici della Fondazione, del Grapevine e dei Servizi Generali. Questo favorirà una fiducia reciproca, sostituendo supposizioni e dicerie con informazioni dirette.
Prima della chiusura di ogni Conferenza, un Comitato redigerà un rapporto scritto per tutti i membri di A.A., illustrando lo stato della Sede centrale e della Comunità nel suo insieme.
Al rientro, il Delegato – se possibile – parteciperà a un incontro organizzato dal Comitato statale o provinciale con i rappresentanti dei Gruppi e altri interessati, per presentare la sua relazione personale. Raccolgerà reazioni e suggerimenti su questioni da affrontare nelle future sessioni della Conferenza. Il Delegato dovrà inoltre visitare il maggior numero possibile di Gruppi della sua area, garantendo loro un collegamento diretto con la Sede centrale di A.A.
(Opuscolo del Terzo Legato, ottobre 1950)
12R (seconda parte) – Grazie alla Conferenza dei Servizi Generali, l’intera Comunità di A.A. è ora coinvolta attivamente. La Conferenza funziona come un “comitato rotante su vasta scala”, a cui è affidata la responsabilità dei servizi mondiali di A.A.: sostegno ai Gruppi, pubbliche relazioni, creazione e distribuzione di letteratura, diffusione internazionale e altre attività.
(Bill W., Prima Conferenza dei Servizi Generali, 1951)
13D – Potresti spiegare la tradizione di AA riguardo ad altre realtà operative nel campo dell’alcolismo?
13R – Ricordo molto bene quando questo comitato iniziò (gennaio 1944). Mi mise in contatto con i nostri grandi amici di Yale: il coraggioso Dr. Haggard, l’incredibile Dr. Jellinek (o “Bunky”, come lo chiamavamo affettuosamente), Seldon e tutte quelle persone dedicate.
Si pose la domanda: un membro di AA poteva impegnarsi nell’educazione, nella ricerca o in altre attività simili? Ne scaturì un acceso dibattito in AA, il che non sorprende, perché bisogna ricordare che in quel periodo eravamo come i naufraghi sulla zattera di Rickenbacker. Chi osava scuoterci, anche solo un po’, rischiava di farci ricadere nel mare dell’alcol.
Quindi, francamente, avevamo paura. E come al solito, c’erano i radicali, i conservatori e i moderati sulla questione se i membri di AA potessero impegnarsi in altre iniziative in questo campo. I conservatori dicevano: “No, teniamolo semplice, occupiamoci dei fatti nostri.” I radicali dicevano: “Appoggiamo qualsiasi cosa sembri utile, usiamo il nome di AA per raccogliere fondi e fare del bene in tutto il settore.” E la crescente fazione dei moderati prese la posizione: “Lasciamo che ogni membro di AA che senta la chiamata si impegni in questi campi correlati, perché faremmo una scelta antisociale se agissimo diversamente.”
Alla fine, la Tradizione si stabilì così, e da allora molti sono stati chiamati e molti sono stati scelti per lavorare in questi ambiti correlati, che oggi sono così promettenti che noi di Alcolisti Anonimi stiamo tornando alle nostre giuste dimensioni. Solo ora ci rendiamo conto di essere solo una piccola parte di un quadro molto più grande.
Ci stiamo rendendo conto di nuovo, e con rinnovata chiarezza, che senza i nostri amici non solo non saremmo mai esistiti, ma non avremmo potuto crescere. Stiamo acquisendo una nuova visione di come dovrebbero essere i nostri rapporti con il mondo e con tutte queste iniziative correlate. In altre parole, stiamo maturando.
Anzi, l’anno scorso a St. Louis siamo stati così audaci da dichiarare di aver raggiunto la maturità e che, all’interno di Alcolisti Anonimi, i principi fondamentali della sobrietà, dell’unità e del servizio erano ormai evidenti. A St. Louis ho tenuto discorsi su ognuno di questi temi, concentrandomi soprattutto su ciò che AA aveva fatto in questi ambiti. Ma qui ci troviamo in un campo molto più vasto, e penso che il cielo sia l’unico limite.
Posso dire senza riserve che ciò che questo Comitato ha realizzato, con l’aiuto dei suoi grandi amici (ora numerosissimi, come potete vedere), ha creato più amicizie per AA e ha svolto un servizio più ampio nell’educare il mondo sulla gravità di questa malattia e su cosa si può fare, più di qualsiasi altra singola agenzia.
Sono di parte, forse un po’ di parte, perché qui siede la decana delle nostre signore (Marty M.), mia cara amica. Quindi, parlando da fondatore, voglio esprimerle davanti a tutti voi il massimo che posso dire: grazie, con tutto il mio affetto.
Alla fine dell’incontro a St. Louis, paragonai AA a una cattedrale le cui fondamenta poggiano sulla terra. Dissi che sul suo grande pavimento vediamo i Dodici Passi di AA, con 150.000 sofferenti e le loro famiglie riuniti. Abbiamo visto alzarsi le pareti, sostenute dalle Tradizioni di AA, e a St. Louis, quando la Conferenza eletta subentrò al Consiglio di Amministrazione, la guglia del servizio fu completata e il suo faro, la luce di AA, brillò per richiamare tutto il mondo.
Oggi, seduto qui, mi rendo conto che quella visione non era abbastanza grande. Sul pavimento della cattedrale dello spirito dovrebbe essere scritta ogni formula, da qualsiasi fonte provenga, per la liberazione dall’alcolismo: che sia un farmaco, l’arte psichiatrica o l’opera di questo Comitato. In altre parole, noi che affrontiamo questo problema siamo tutti sulla stessa barca, tutti in piedi sullo stesso pavimento.
Portiamo dunque su questo pavimento tutte le risorse disponibili per affrontare il problema, e non pensiamo all’unità solo in termini di Tradizioni di AA, ma consideriamo l’unità tra tutti coloro che lavorano in questo campo come una fratellanza, una sorellanza, una parentela nella sofferenza comune. Stiamo uniti nello spirito del servizio. Solo così potremo dichiararci davvero maturi. E solo allora – e credo che questo momento non sia lontano – potremo dire che il futuro, il nostro futuro, il futuro del Comitato, di AA e di tutto ciò che le persone di buona volontà stanno cercando di fare in questo campo sarà completamente assicurato.
(Trascritto da un discorso registrato al National Committee for Education on Alcoholism, 30 marzo 1956).
14D – A quali scopi servono i Dodici Concetti per i Servizi Mondiali?
14R – “I Concetti discussi nelle pagine seguenti sono principalmente un’interpretazione della struttura dei servizi mondiali di AA. Essi delineano le pratiche tradizionali e i principi sanciti dalla Conferenza che collegano le parti componenti della nostra struttura mondiale in un insieme funzionante. Il nostro manuale del Terzo Legato è in gran parte un documento di procedure. Fino ad ora, il Manuale ci dice come far funzionare la nostra struttura di servizio. Ma mancano molte informazioni dettagliate che ci spieghino perché la struttura si è sviluppata in questo modo e perché le sue parti operative sono collegate tra loro secondo quanto previsto dagli statuti della Conferenza e del Consiglio dei Servizi Generali.
Questi Dodici Concetti rappresentano quindi un tentativo di mettere per iscritto il ‘perché’ della nostra struttura di servizio, in modo che la preziosa esperienza del passato e le conclusioni che ne abbiamo tratto non vadano perdute.
Questi Concetti non vogliono cristallizzare il nostro funzionamento impedendo cambiamenti necessari. Descrivono solo la situazione attuale, le forze e i principi che l’hanno plasmata. Bisogna ricordare che, per molti aspetti, lo statuto della Conferenza può essere facilmente modificato. Tuttavia, questa interpretazione del passato e del presente può avere un grande valore per il futuro. Ogni nuova generazione di lavoratori nel servizio sarà desiderosa di cambiare e migliorare la nostra struttura e il nostro modo di operare. Questo è positivo. Senza dubbio, saranno necessari dei cambiamenti. Forse emergeranno difetti imprevisti, che dovranno essere corretti.
Ma accanto a questo atteggiamento costruttivo, ce ne sarà inevitabilmente un altro, distruttivo. Saremo sempre tentati di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Cadremo nell’illusione che ogni cambiamento plausibile rappresenti necessariamente un progresso. Quando animati da questa idea, potremmo gettare con noncuranza le preziose lezioni conquistate a fatica nelle prime esperienze, ricadendo così in molti degli errori del passato.
Pertanto, uno degli scopi principali di questi Dodici Concetti è tenere costantemente davanti a noi l’esperienza e le lezioni dei primi tempi. Questo dovrebbe ridurre il rischio di cambiamenti affrettati e non necessari. E se venissero apportate modifiche che si rivelassero dannose, si spera che questi Dodici Concetti possano indicare un punto di ritorno sicuro.”
(GSC, 1960)
15 – (Ricordando i primi amici di AA) Bill non si stancava mai di raccontare la storia degli inizi di AA e di ringraziare i tanti amici che ci hanno sostenuto nei primi tempi. Ecco come la raccontò alla Conferenza dei Servizi Generali nel 1952.
15R – “So che condividete con me, in queste ore conclusive della Conferenza, una profonda e gioiosa consapevolezza: la certezza di essere finalmente sulla strada maestra che si protende dritta verso il nostro futuro, verso, confidiamo, un’alba senza tramonto. Guardiamo a quell’alba con grande speranza, con una fiducia quasi reverenziale e con il cuore colmo di una gratitudine indicibile.
Gratitudine verso il Padre delle luci, che ci ha liberati dalla nostra schiavitù; gratitudine verso gli amici attraverso i cui cuori Egli ha operato questo miracolo; e gratitudine gli uni per gli altri.
Questo è anche un momento che risveglia i ricordi. Per me, più che per molti altri, le sorgenti della memoria sono in piena. Penso a uno psichiatra di Zurigo, in Svizzera, che aveva un paziente, un uomo d’affari americano, e lo curò per un anno.
Il paziente aveva grande stima del suo psichiatra, nientemeno che il famoso Dr. Jung. Credeva di essere guarito, ma appena lasciò il dottore, si ritrovò ubriaco. Tornò così dal Dr. Jung, che, senza saperlo, è tutt’oggi uno dei fondatori di questa fratellanza. E Jung gli disse: ‘A meno che tu non abbia un’esperienza spirituale, non c’è nulla che si possa fare. Sei troppo condizionato dall’alcolismo per essere salvato in altro modo.’
Il nostro amico trovò quella sentenza dura, ma come molti di noi dopo di lui, iniziò a cercare quell’esperienza. La trovò nell’ambito dell’Oxford Group, un movimento evangelico dell’epoca. Sobriò immediatamente. Lì ricevette la grazia per riuscirci. Poi gli fu segnalato che un suo amico stava per essere ricoverato per alcolismo in un manicomio del Vermont. Insieme ad altri membri del Gruppo, intervenne. Il risultato fu il nostro amato Ebby, che per primo mi portò gli elementi essenziali della sobrietà.
Nel frattempo, c’era un piccolo gesuita, Ed Dowling, che lavorava tra il suo gregge, zoppo e relativamente sconosciuto. Anche lui avrebbe acceso una candela per AA.
C’era una suora, sorella Ignatia, ad Akron, che sarebbe diventata la compagna del Dr. Bob, il principe dei nostri Dodicesimi Passi. Anche lei avrebbe acceso una candela per noi.
Persino Francesco d’Assisi, sostenitore della povertà collettiva, aveva acceso una candela per AA. E così William James, il padre della psicologia moderna, il cui libro ‘Le varietà dell’esperienza religiosa’ ebbe un’influenza profonda su di noi. Anche lui aveva acceso una candela per Alcolisti Anonimi.
Poi arrivarono i messaggeri per il mondo intero: Harry Emerson Fosdick, Fulton Oursler di Liberty, Jack Alexander e il proprietario del Saturday Evening Post. Anche loro avrebbero acceso candele per AA.
Ma nell’estate del 1934, gli alcolisti del mondo si sentivano senza speranza. Eppure, come vedete, una tavola era stata imbandita in presenza del nostro antico nemico, John Barleycorn. C’erano già candele, cibo e bevande, ma gli ospiti non erano ancora arrivati.
Poi arrivarono alcuni ospiti, e parteciparono alla scintilla che sarebbe diventata AA. Seguì il periodo in cui volammo alla cieca, fino a quando, verso il 1937 o il 1938, capimmo che davvero una tavola era stata preparata in presenza del nostro nemico. E che le candele su quella tavola un giorno avrebbero potuto illuminare il mondo intero e raggiungere ogni angolo lontano.
Ci furono altri anni di fatica in quel periodo pionieristico, che si conclusero nel 1941 con l’articolo sul Post. Nel frattempo, era apparso il nostro libro di esperienze. Non c’era più bisogno di viaggiare di persona: il messaggio poteva arrivare attraverso quelle pagine stampate a chi soffriva lontano.
Il nostro programma di recupero era ormai completo. Poi venne la prova: i nostri gruppi in crescita sarebbero riusciti a vivere e lavorare insieme? L’esplosiva energia della nostra comunità avrebbe trovato nei principi del recupero un contenitore sufficiente? Presto capimmo, poco a poco, che noi di AA dovevamo restare uniti, o saremmo finiti separatamente.
E in quell’esperienza a volte spaventosa, nacquero le Tradizioni di AA. E a Cleveland, nel 1950, furono confermate dalla nostra comunità come la piattaforma tradizionale su cui la nostra società intendeva poggiare.
Queste Tradizioni non erano un corpo di leggi, ma un insieme di principi intrisi dello spirito dei nostri Dodici Passi e custoditi nel cuore di ognuno di noi. Sarebbero stati la nostra protezione, pensavamo, contro gli attacchi del mondo esterno e contro le tentazioni che potevano sorgere al nostro interno.
Questa era l’essenza delle Tradizioni di AA
In questo periodo di infanzia e adolescenza, la Fratellanza si rese conto che doveva funzionare. Questa Conferenza è il culmine di quel lungo processo di scoperta attraverso cui abbiamo imparato come agire al meglio per portare questo messaggio a chi soffre. Sì, l’avvento di questa Conferenza in piena forza segnerà un grande giorno negli annali di AA.
Per me, segna il momento in cui devo passare dall’azione alla riflessione e alla meditazione, e al compito di fare da scriba per voi, per registrare l’esperienza di questi anni meravigliosi appena trascorsi. So che sarò solo un riflettore, un semplice scribacchino. Spero che questo lavoro sarà completato, utile e gradito a voi… e gradito a Dio.
Il mio cuore è troppo pieno per dire altro, se non: arrivederci.”
16D – Gli alcolisti, come categoria, differiscono dalle altre persone?
16R – “Alcuni anni fa, i medici iniziarono a osservare Alcolisti Anonimi. Riunirono una trentina di noi e dissero tra sé: ‘Ora che questi individui sono in AA, forse smetteranno di mentire così tanto, e finalmente potremo studiare davvero com’è fatto un alcolista dentro.’ Così, alcuni di noi furono esaminati a lungo da psichiatri, sottoposti a ogni tipo di test, e l’obiettivo di questa indagine era capire se gli alcolisti, come categoria, fossero diversi dagli altri – e, in caso affermativo, in che modo e misura.
Fummo invitati a partecipare a questo convegno, dove vennero presentati vari studi accademici. Alla fine, uno dei medici (un luminare – l’incontro si teneva alla New York Academy of Medicine) riassunse le conclusioni emerse: l’alcolista, da un punto di vista emotivo, ha tratti infantili. È una persona più sensibile della media. Poi ci attribuirono un’altra caratteristica – usarono la parola ‘grandiosità’. Eravamo grandiosi (intendendo che, come tipo, eravamo quelli che potreste chiamare ‘gente del tutto o niente’).
Qualcuno una volta ci descrisse così: ‘Tutti gli alcolisti bramano la luna, quando forse le stelle sarebbero bastate.’ Come categoria, anche noi siamo fatti così, dissero i medici.”
*(Memphis, Tennessee, 18-20 settembre 1947)*
17D – AA si basa interamente sulle vostre esperienze personali?
17R – “Vediamo un po’. Il Dr. Bob guarì. Poi noi due iniziammo a lavorare con gli alcolisti ad Akron. Ebbene, riemerse quella tendenza a predicare, quell’idea che tutto dovesse essere fatto in un certo modo, e ancora una volta lo scoraggiamento. I progressi erano lenti. Ma poco a poco fummo costretti ad analizzare le nostre esperienze e a dire: ‘Questo approccio non ha funzionato con quel tale. Perché? Proviamo a metterci nei suoi panni, smettiamola di sermoniare e vediamo come potremmo raggiungerlo se fossimo al suo posto.’
Questo ci portò a capire che AA non doveva essere un insieme di idee rigide, ma qualcosa in evoluzione, che cresce dall’esperienza. Col tempo, iniziammo a riflettere: ‘Da dove viene questa meravigliosa benedizione che ci ha toccati?’ Era un risveglio spirituale nato dall’avversità. Così cominciammo a cercare con più attenzione i nostri errori, a correggerli, a imparare da essi. A poco a poco, il gruppo crebbe: alla fine del primo anno eravamo 5; del secondo, 15; del terzo, 40; e del quarto, 100.
In quei primi quattro anni, molti di noi avevano un altro grave difetto: l’intolleranza. Appena ottenemmo un po’ di successo, temo che l’orgoglio ci annebbiò, e tendemmo a dimenticarci dei nostri amici. Dicevamo: ‘Quei medici non hanno fatto nulla per noi, e quei preti non capiscono proprio niente.’ Diventammo snob e paternalistici.
Poi leggemmo un libro del Dr. Carrel (L’uomo, questo sconosciuto). Da lì traemmo un’idea che oggi fa parte del nostro sistema. Carrel scriveva, in sostanza: ‘Il mondo è pieno di analisti. Abbiamo tonnellate di minerali nelle miniere e materiali da costruzione in superficie. C’è chi si specializza in una cosa, chi in un’altra. Il mondo moderno è pieno di ottimi analisti e scavatori, ma pochi sintetizzano deliberatamente, mettono insieme materiali diversi, creano qualcosa di nuovo. Ci manca un pensiero sintetico – un pensiero disposto a attingere di qua e di là per evolvere qualcosa di nuovo.’
Leggendo quel libro, alcuni di noi capirono che era proprio ciò a cui stavamo tentando di arrivare. Avevamo cercato di costruire partendo dalle nostre esperienze. A quel punto pensammo: ‘Attingiamo anche alle esperienze altrui. Torniamo dai nostri amici medici, dai pastori, dagli assistenti sociali, da tutti quelli che si sono occupati di noi, e esaminiamo ciò che hanno da offrire per integrarlo nella nostra sintesi. E coinvolgiamoli, dove possibile.’
Così iniziò il nostro processo di prova ed errore, e dopo quattro anni, il materiale fu raccolto in un libro noto come Alcolisti Anonimi.”
(Yale Campus Estivo di Studi sull’Alcol, giugno 1945)
18D – Una crescita troppo rapida non sarebbe dannosa, sia per i nuovi membri che per la stessa Alcolisti Anonimi?
18R – “Alcuni di noi la pensavano così, ma diverse esperienze di espansione rapida hanno in gran parte dissipato questa preoccupazione. Un esempio lampante si ebbe a Cleveland, Ohio. Nell’autunno del 1939, Cleveland contava forse 30 membri. La maggior parte di loro aveva conosciuto Alcolisti Anonimi recandosi nella vicina città di Akron, dove il nostro primo gruppo aveva messo radici nell’estate del 1935. A un certo punto, il Cleveland Plain Dealer pubblicò una serie di articoli incisivi e potenti su di noi. Pubblicati nella pagina editoriale, questi pezzi dicevano ai cittadini di Cleveland che Alcolisti Anonimi funzionava; che non costava nulla; che era pronto ad aiutare qualsiasi alcolista in città che volesse davvero guarire.
Cleveland divenne rapidamente consapevole di Alcolisti Anonimi. Centinaia di richieste, telefoniche e per posta, si riversarono sul Plain Dealer e sui membri di Alcolisti Anonimi, pieni di aspettative ma anche di nervosismo. L’afflusso fu così massiccio che nuovi membri, sobri da appena una o due settimane, dovettero essere coinvolti nell’aiutare i nuovi arrivati. Diversi ospedali privati aprirono le loro porte per far fronte all’emergenza e furono così soddisfatti del risultato che da allora collaborano con noi. Con grande sorpresa di tutti, questa crescita rapida, per quanto frenetica, si rivelò un successo. In 90 giorni, il gruppo originale di 30 membri si espanse a 300; in sei mesi raggiungemmo circa 500 membri; e in due anni arrivammo a 1200 membri, distribuiti in una ventina di gruppi nell’area di Cleveland.
Sebbene non disponiamo di dati precisi, possiamo affermare con ragionevole certezza che 3 su 4 di coloro che arrivarono in quel periodo, e che da allora sono rimasti nei gruppi, si sono recuperati dall’alcolismo.”
(Quarterly Journal of Studies on Alcohol, Vol.6(2), settembre 1945)
19D – Potresti descrivere la tua esperienza spirituale e la tua comprensione di ciò che accadde?
19R – “Nel dicembre 1934, mi trovavo al Towns Hospital di New York. Il mio vecchio amico, il dottor William Silkworth, scosse la testa. Quando gli effetti della sedazione e dell’alcol svanirono, caddi in una depressione terribile. Il mio amico Ebby mi fece visita e, sebbene felice di vederlo, mi ritrassi un po’, temendo un proselitismo, ma non accadde nulla del genere. Dopo qualche convenevole, gli chiesi ancora una volta la sua semplice formula per la sobrietà. Con calma, lucidità e senza la minima pressione, me la spiegò e poi se ne andò.
Steso lì, in preda al conflitto interiore, sprofondai nella più nera depressione che avessi mai provato. Per un attimo, il mio orgoglio fu annientato. Gridai: ‘Ora sono pronto a fare qualsiasi cosa, qualsiasi cosa per ottenere ciò che il mio amico Ebby ha ricevuto.’ Senza aspettarmi nulla, lanciai quest’appello disperato: ‘Se esiste un Dio, mi si riveli!’ Il risultato fu istantaneo, un’esperienza elettrica, indescrivibile. La stanza sembrò illuminarsi di una luce accecante. Provai un’estasi incredibile, come se fossi su una montagna. Un vento possente soffiò, avvolgendomi e penetrandomi. Non era un vento fisico, ma dello Spirito. E poi, come un lampo, il pensiero: ‘Sei un uomo libero.’ L’estasi si placò, ma rimasi su quel letto in un nuovo stato di coscienza, pervaso da una Presenza. In sintonia con l’Universo, una grande pace mi invase. Pensai: ‘Dunque questo è il Dio dei predicatori, questa è la grande Realtà.’ Ma ben presto tornò la mia ‘ragione’, la mia educazione moderna riprese il sopravvento, e credetti di essere impazzito. Ero terrorizzato.
Il dottor Silkworth — un santo della medicina, se mai ce ne fu uno — venne ad ascoltare il mio tremante resoconto di quel fenomeno. Dopo avermi interrogato con attenzione, mi assicurò che non ero pazzo e che forse avevo avuto un’esperienza psichica in grado di risolvere il mio problema. Pur essendo uno scienziato scettico, fu estremamente gentile e perspicace. Se avesse detto ‘allucinazione’, oggi sarei morto. Gli sarò eternamente grato.
La fortuna mi assistette. Ebby mi portò un libro intitolato Le varietà dell’esperienza religiosa e lo divorai. Scritto dallo psicologo William James, sosteneva che l’esperienza di conversione può avere una realtà oggettiva. La conversione cambia davvero le motivazioni e permette semi-automaticamente di essere e fare ciò che prima sembrava impossibile. Era significativo che queste esperienze di conversione marcata avvenissero soprattutto a individui che avevano toccato il fondo in un’area dominante della loro vita. Il libro mostrava una grande varietà di esperienze, ma che fossero luminose o oscure, catastrofiche o graduali, teologiche o intellettuali, tutte avevano un denominatore comune: trasformavano persone completamente sconfitte. Così dichiarava William James, il padre della psicologia moderna. La descrizione calzava a pennello, e da allora ho cercato di viverla.
Per gli alcolisti, la risposta era ovvia: una deflazione profonda, e ancora più profonda. Sembrava chiaro come il sole. Ero un ingegnere di formazione, e le parole di quell’autorevole psicologo furono decisive per me. Quel eminente scienziato della mente aveva confermato tutto ciò che il dottor Jung aveva detto, documentando ampiamente ogni affermazione. Così William James consolidò le fondamenta su cui io e molti altri ci siamo appoggiati per tutti questi anni. Non ho toccato un drink dal 1934.”
(New York Medical Society on Alcoholism, 28 aprile 1958)
20D – Potresti raccontarci dei primi tempi e degli incontri a casa tua in Clinton Street?
20R – “In quei giorni eravamo legati all’Oxford Group, fondato in parte da Sam Shoemaker, che si riuniva nella Calvary Church. Il nostro debito verso l’Oxford Group è immenso. Avremmo potuto trovare questi principi altrove, ma furono loro a donarceli, e voglio ribadire la nostra gratitudine. Da loro imparammo anche — cosa altrettanto importante — cosa non fare con gli alcolisti. Padre Edward Dowling, un caro amico gesuita, mi disse una volta: ‘Bill, non è ciò che avete messo in AA a renderlo valido, ma ciò che avete lasciato fuori.’ Ricevemmo entrambe le lezioni dai nostri amici dell’Oxford Group, e fu attraverso loro che Ebby si era reso sobrio, diventando il mio sponsor, colui che mi portò questo messaggio.
Iniziammo a partecipare agli incontri dell’Oxford Group a Calvary House, e lì, appena uscito dal Towns Hospital, feci il mio primo discorso, raccontando la mia strana esperienza, che non impressionò gli alcolisti presenti. Ma qualcos’altro colpì uno di loro. Quando parlai della natura di questa malattia, questa condizione, tese le orecchie. Era un professore di chimica, agnostico, e venne a parlare con me dopo. Presto lo invitammo a Clinton Street — il nostro primissimo ‘cliente’. Lavorammo duramente con Freddy per tre anni, ma purtroppo rimase ubriaco per altri undici anni. Altri vennero da noi grazie a quegli incontri. Cominciammo a frequentare la Calvary Mission, un’appendice della chiesa all’epoca, dove trovammo un’abbondante scorta di casi difficili. Li invitavamo a Clinton Street, e a quel punto i membri dell’Oxford Group pensarono che stessimo esagerando con ‘la questione degli ubriachi’. Loro volevano salvare il mondo, e inoltre avevano avuto brutte esperienze con noi. Sam mi racconta ridendo che lui e i suoi collaboratori erano rimasti molto contrariati quando, radunato un gruppo di alcolisti a Calvary House sperando in un miracolo, questi avevano portato bottiglie di nascosto e uno aveva lanciato una scarpa dalla finestra, rompendo una vetrata della chiesa. Gli alcolisti non erano proprio benvisti quando arrivammo noi Wilson.
Comunque, passavamo tutto il tempo con gli alcolisti, ma per sei mesi non successe nulla. Come i Groupers (i partecipanti dell’Oxford Group), li accudivamo. A Clinton Street, nei due o tre anni successivi, creammo una sorta di officina, clinica, ospedale e pensione gratuita da cui praticamente nessuno usciva sobrio, ma accumulammo un sacco di esperienza.
Iniziammo a capire il ‘gioco’, e dopo la separazione dall’Oxford Group — un anno e mezzo dopo la mia sobrietà nel 1934 — cominciammo a tenere incontri con i pochi che erano rimasti sobri. Fu probabilmente il primo vero meeting di AA. Il libro non era ancora stato scritto. Non ci chiamavamo neanche Alcolisti Anonimi; alla domanda ‘Chi siete?’, rispondevamo: ‘Siamo un gruppo di alcolisti senza nome’. Quell’uso della parola ‘senza nome’ ci portò poi all’idea dell’anonimato, che fu aggiunto al titolo del libro.
Clinton Street era un viavai incredibile. Ricordo bene quegli incontri nel salotto: le discussioni accese, le speranze, le paure — e le paure erano immense. Se qualcuno, dopo mesi di sobrietà, ricadeva, era una tragedia. Non dimenticherò mai il giorno in cui Ebby, dopo un anno e mezzo con noi, ricadde, e tutti pensammo: ‘Forse capiterà anche a noi’. Allora iniziammo a chiederci il perché, e alcuni di noi andarono avanti.
A Clinton Street, io parlavo molto, ma era Lois a fare la maggior parte del lavoro: cucinare, accudire, amare quei primi pionieri.
Oh, che episodi! Una volta ero via per lavoro (ero tornato brevemente in attività) e un alcolista dormiva sul divano in salotto. Lois si svegliò nel cuore della notte per un gran trambusto: uno si era ubriacato, aveva bevuto una bottiglia di sciroppo d’acero ed era caduto nel secchio del carbone. Quando Lois aprì la porta, lui chiese un asciugamano per coprirsi. La stessa persona, un’altra volta, la costrinse a vagare di notte per le strade in cerca di un dottore, e poi a cercare qualcosa da bere, perché — disse — ‘non si può volare con un’ala sola!’
Una volta, due dei nostri cinque ospiti erano ubriachi; un’altra volta, lo erano tutti insieme! Poi ci fu la rissa in cantina, dove due si picchiarono con assi di legno. E una notte, il povero Ebby, dopo mille tentativi falliti, fu persino chiuso fuori… ma eccolo riapparire, nero di carbone, dopo essere strisciato attraverso il condotto della caldaia.
Vedete, Clinton Street era una fucina in cui forgiavamo questi principi. Per me e Lois, tutte le strade portano a Clinton Street.”
(Manhattan Group, 1955)
21D – Come hai conosciuto il numero 3 di AA, Bill D.?
21R – “Vivevo a casa del Dr. Bob quando un giorno mi disse: ‘Per proteggerci, non credi che dovremmo lavorare con più alcolisti?’. Mi parve un’idea eccellente. Così chiamò il City Hospital, dove la sua reputazione era compromessa a causa della sua dipendenza, e parlò con l’infermiera capo: ‘Un collega di New York ed io abbiamo una nuova cura per l’alcolismo’. Con gentilezza, lei rispose: ‘Dottore, forse dovrebbe provarla prima su di sé’. Poi ci disse che avevano un ‘candidato perfetto’, legato al letto per aver fatto un occhio nero a un’infermiera. Il dottore replicò: ‘Mettetelo a letto, verremo quando si sarà ripreso e potrà essere spostato in una stanza privata’.
Poco dopo, il Dr. Bob ed io assistemmo a una scena che decine di migliaia di noi hanno visto da allora — e, Dio volendo, centinaia di migliaia vedranno: un uomo sul letto che ancora non sapeva di poter guarire.
Quell’uomo, come molti dopo di lui, non era ottimista: ‘Sono diverso, il mio caso è troppo difficile. E non parlatemi di religione: ho già fede. Ero diacono in chiesa, e credo ancora in Dio, ma Lui chiaramente non crede in me. Tornate domani, mi interessate: voi avete vissuto l’inferno’. Gli avevamo raccontato la nostra semplice formula e la nostra liberazione, ma non lo impressionò che fossimo sobri da pochi mesi (io) e pochi giorni (Bob). ‘Anch’io sono stato sobrio così a lungo’, disse.
Tornammo il giorno dopo. Entrando, vedemmo sua moglie ai piedi del letto che gli diceva: ‘Cos’hai? Sembri diverso’. Lui rispose: ‘Eccoli, sono loro che capiscono: hanno vissuto l’inferno’. Ci spiegò frettolosamente che nella notte aveva trovato speranza e deciso di seguire la nostra formula. Qualcos’altro era accaduto: una sensazione di leggerezza, di essere intero, di sollievo.
Poi, il numero 3 disse a sua moglie: ‘Prendimi i vestiti, cara: usciamo di qui’. E così, AA numero 3 si alzò dal letto e uscì da quell’ospedale per non bere mai più. Allora, non comprendemmo cosa stesse iniziando. Ma quello fu l’inizio di AA come lo conosciamo oggi. Il processo essenziale era lo stesso, e la grazia di Dio altrettanto eterna.”
(Chicago, Illinois, febbraio 1951)
22D – La scrittura del Libro Grande è stato un lavoro difficile?
22R – Man mano che i capitoli venivano completati, li portavamo alle riunioni di A.A. a New York ancora in forma grezza. Non erano appetibili come il pollo alla griglia, i ragazzi non li divoravano affatto. All’improvviso mi sono trovato in mezzo a un vortice di discussioni. Io facevo semplicemente da arbitro. Alla fine ho dovuto stabilire: “Be’, ragazzi, da una parte abbiamo i fervorosi che vogliono includere nel libro tutta la roba vecchio stile, e dall’altra voi mi dite che dobbiamo avere un libro psicologico, che però non ha mai curato nessuno. Neanche nelle missioni hanno ottenuto molto con noi, quindi credo che dovrete lasciarmi fare l’arbitro. Scribacchierò qualche bozza, ve le mostrerò e raccoglierò i vostri commenti.” Così abbiamo combattuto, sofferto e faticato capitolo dopo capitolo. Abbiamo inviato copie ad Akron, sono state fatte circolare e ci sono state discussioni accanite su cosa includere nel libro e cosa no.
Nel frattempo, abbiamo incaricato gli alcolisti di scrivere le loro storie o abbiamo fatto scrivere le storie da giornalisti perché fossero inserite nella parte finale del libro. L’idea era di avere un testo principale e poi una serie di storie su alcolisti che erano riusciti a rimanere sobri. (Trascrizione da un nastro, Fort Worth, Texas, 1954)
23D – I Dodici Passi possono essere paragonati agli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio?
23R – Nel 1941, visitai St. Louis e padre Ed Dowling mi venne a prendere all’aeroporto. Era una giornata torrida, e lui era lì per accompagnarmi alla sede centrale della Congregazione Gesuita. Fui colpito dalla deliziosa informalità dell’ambiente. Naturalmente, non ero mai stato in un posto del genere. Ero cresciuto in un piccolo villaggio del Vermont, in stile yankee. Per fortuna, mio nonno, che mi aveva cresciuto, non era bigotto, ma non c’era stato molto contatto o comprensione religiosa. E così eccomi lì, in una sorta di monastero. E anche allora, che ci crediate o no, continuavo a pensare che il cattolicesimo fosse in qualche modo una superstizione degli irlandesi!
Poi padre Ed e i suoi confratelli gesuiti cominciarono a farmi domande. Volevano saperne di più sul libro di A.A. appena pubblicato e, in particolare, sui Dodici Passi. Con mia grande sorpresa, sembravano convinti che io avessi avuto un’educazione cattolica. E parvero ancora più stupiti quando dissi loro che a undici anni avevo smesso di frequentare la scuola domenicale congregazionalista perché l’insegnante mi aveva chiesto di firmare un impegno di temperanza. Quella era stata l’intera estensione della mia educazione religiosa.
Mi fecero altre domande sui Dodici Passi di A.A. Spiegai che alcuni di noi, anni prima, erano stati legati ai Gruppi Oxford e che da quelle brave persone avevamo preso l’idea dell’autoanalisi, della confessione, della riparazione, dell’aiuto agli altri e della preghiera – idee che avremmo potuto trovare anche altrove. Dopo il nostro distacco dai Gruppi Oxford, questi principi erano stati organizzati in un programma trasmesso oralmente, al quale avevamo aggiunto un passo nostro, cioè che “eravamo impotenti di fronte all’alcol”. I nostri Dodici Passi erano il risultato del mio tentativo di definire e elaborare meglio quei principi orali, in modo che i lettori alcolisti avessero un programma più specifico: non poteva esserci fuga da quelli che consideravamo i principi e gli atteggiamenti essenziali. Questa era stata la mia unica idea nella loro stesura. Questa versione ampliata del nostro programma era stata scritta abbastanza in fretta – forse in venti o trenta minuti – una sera in cui ero di pessimo umore. Perché i Passi siano stati scritti nell’ordine in cui appaiono oggi e perché siano formulati proprio così, non ne ho la minima idea.
Dopo questa mia spiegazione, i miei nuovi amici gesuiti indicarono un grafico appeso al muro. Mi spiegarono che si trattava di un confronto tra gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio e i Dodici Passi di Alcolisti Anonimi e che, in linea di principio, la corrispondenza era sorprendentemente precisa. Credo abbiano anche fatto l’osservazione, un po’ sconcertante, che i principi spirituali esposti nei nostri Dodici Passi appaiono nello stesso ordine in cui si trovano negli Esercizi di Ignazio.
Nella mia abissale ignoranza, chiesi addirittura: «Per favore, ditemi… chi è questo Ignazio?».
Sebbene i Dodici Passi di Alcolisti Anonimi non contengano nulla di nuovo, non c’è dubbio che questa singolare e precisa corrispondenza con gli Esercizi di Ignazio abbia contribuito molto a creare il rapporto stretto e fruttuoso che oggi abbiamo con la Chiesa. (The ‘Blue Book’, Vol. 12, 1960)
24D – Come hai conosciuto Padre Ed Dowling?
24R – Il mio primo incontro indimenticabile con Padre Ed avvenne così. Era l’inizio del 1940, anche se ancora in pieno inverno. A parte il vecchio Tom, il pompiere che avevamo appena tirato fuori dal manicomio di Rockland, il club era deserto (il club sulla 24th St. a New York, dove Bill e Lois vivevano dopo essere stati sfrattati dalla loro casa su Clinton St.). Mia moglie Lois era uscita. Era stata una giornata frenetica, piena di delusioni. Ero sdraiato al piano di sopra nella nostra stanza, divorato dall’autocommiserazione. Tutto era iniziato con uno dei miei soliti attacchi immaginari di ulcera. Era una notte gelida, con un vento terribile. La grandine e il nevischio battevano sul tetto di lamiera sopra la mia testa.
Poi il campanello della porta d’ingresso suonò, e sentii il vecchio Tom trascinarsi per aprire. Un minuto dopo, si affacciò sulla porta della mia stanza, chiaramente infastidito. Disse: «Bill, c’è un vecchio barbone giù da St. Louis che vuole vederti.» «Santo cielo», pensai, «non sarà mica un altro alcolista?» Con stanchezza e persino risentimento, dissi a Tom: «E va bene, fallo salire, fallo salire.»Poi una figura strana apparve sulla porta della mia camera. Indossava un cappello nero informe che per qualche motivo mi ricordava una foglia di cavolo. Il colletto del cappotto era sollevato intorno al collo, e si appoggiava pesantemente a un bastone. Era coperto di nevischio. Pensando fosse solo un altro ubriaco, non mi alzai nemmeno dal letto. Poi si sbottonò il cappotto, e vidi che era un religioso.
Un attimo dopo, con grande gioia, realizzai che era il sacerdote che aveva scritto quel meraviglioso articolo su A.A. su The Queen’s Work. La mia stanchezza e irritazione svanirono all’istante. Parlammo di molte cose, non sempre serie. Poi cominciai a rendermi conto di avere davanti uno dei più straordinari paio di occhi che avessi mai visto. E, mentre continuavamo a parlare, la stanza si riempì sempre più di quella che mi sembrava la presenza di Dio, che fluiva attraverso il mio nuovo amico. Fu una delle esperienze più straordinarie della mia vita. Tale era la sua rara capacità di trasmettere grazia. E la mia esperienza non era affatto unica. Centinaia di membri di A.A. hanno raccontato di aver provato esattamente la stessa cosa in sua presenza. Questo fu l’inizio di una delle amicizie più profonde e ispiratrici che avrei mai conosciuto. Fu anche il primo contatto significativo che ebbi con un sacerdote della fede cattolica. (The ‘Blue Book’, Vol. 12, 1960)
A – Padre Edward Dowling, un grande amico gesuita, una volta mi disse: «Bill, non è quello che avete messo in Alcolisti Anonimi a renderlo così speciale, ma quello che avete lasciato fuori.» (Trascrizione da un nastro, Manhattan Group, 1955)
25D – Quali sono i principi racchiusi nelle Dodici Tradizioni?
25R – Che, riguardo a tutte le questioni che influiscono sull’unità di A.A., il nostro bene comune deve venire prima di tutto; che A.A. non ha alcuna autorità umana — solo Dio così come può esprimersi nella coscienza collettiva del Gruppo; che i nostri leader sono semplicemente servitori fidati, non governano; che qualsiasi alcolista può diventare membro di A.A. se lo afferma — non escludiamo nessuno; che ogni Gruppo di A.A. può gestire i propri affari come preferisce, purché non danneggi gli altri Gruppi circostanti; che noi di A.A. abbiamo un unico scopo — portare il nostro messaggio all’alcolista che ancora soffre; che di conseguenza non possiamo finanziare, appoggiare né prestare il nome “Alcolisti Anonimi” a nessun’altra iniziativa, per quanto meritevole; che A.A., in quanto tale, deve rimanere povera, affinché i problemi legati a proprietà, gestione e denaro non ci distolgano dal nostro unico obiettivo; che dobbiamo essere autosufficienti, pagando volentieri le nostre piccole spese; che A.A. deve rimanere per sempre non professionale, e il lavoro del 12° Passo non deve mai essere retribuito; che, come Comunità, non dovremmo mai essere organizzati, ma possiamo comunque creare Comitati o Consigli di Servizio responsabili per garantire una migliore propagazione e sponsorizzazione, e che questi organismi possono assumere lavoratori a tempo pieno per compiti specifici; che le nostre relazioni pubbliche devono basarsi sul principio dell’attrazione piuttosto che della promozione, ed è meglio lasciare che siano i nostri amici a raccomandarci; che l’anonimato personale a livello di stampa, radio e immagini deve essere rigorosamente mantenuto come nostra migliore protezione contro le tentazioni del potere o dell’ambizione personale; e infine, che l’anonimato di fronte al pubblico è la chiave spirituale di tutte le nostre Tradizioni, ricordandoci costantemente di mettere i principi prima delle personalità, e di praticare una genuina umiltà. Tutto ciò affinché le nostre grandi benedizioni non ci rovinino mai; e affinché viviamo per sempre in grata contemplazione di Colui che guida tutti noi. (Registrazione — Dodici Tradizioni, Cleveland, luglio 1950)
Un’altra risposta
25R – A volte ci congratuliamo con noi stessi per le Tradizioni, come se fossero un elenco di virtù esclusive del nostro movimento. In realtà, esse rappresentano una codifica delle lezioni apprese dalla nostra esperienza passata durante i primi anni di A.A.
Queste Tradizioni non sono immutabili in senso assoluto. Potrebbe esserci spazio per miglioramenti. Tuttavia, non dovrebbero essere accantonate con leggerezza, poiché riguardano la nostra unità, sopravvivenza e crescita sotto la grazia di Dio.
Stiamo entrando in una nuova era di sviluppo, con forze immense che scuotono il mondo. I problemi e le difficoltà del futuro potrebbero essere persino maggiori di quelli che abbiamo già superato. Eppure, tra noi esiste un amore che supera ogni comprensione e che ci sosterrà in tutte le prove che ci attendono, per quanto formidabili possano essere. (Trascrizione da un nastro, GSC, 1968)
26D – Come verrà finanziata la proposta Conferenza del Servizio Generale?
26R – Il modo migliore per finanziare la nostra Conferenza è una questione aperta. La Conferenza del Servizio Generale opererà a beneficio di A.A. nel suo insieme. L’intero costo dovrebbe essere coperto dai “contributi dei Gruppi” che già vengono inviati a New York per sostenere l’Ufficio di Servizio Generale. Ma al momento questo metodo è del tutto impossibile. I contributi dei Gruppi non bastano a coprire le spese dell’Ufficio Generale. Né le “riserve” o i “proventi dei libri” della Fondazione possono sostenere la Conferenza.
Proponiamo quindi che a tutti i Gruppi di A.A. venga chiesto un contributo annuale di 5 dollari ciascuno, da versare a Natale. I Fiduciari della Fondazione depositeranno queste somme in un conto speciale contrassegnato come “Fondi per la Conferenza”.
Se anche solo la metà dei Gruppi di A.A. facesse questa donazione annuale di 5 dollari alla Fondazione “a beneficio del milione di persone che ancora non conoscono A.A.”, stimiamo che il ricavato coprirebbe l’intero costo annuale della Conferenza, più le spese di viaggio per tutti i Delegati che superino i 100 dollari a testa per il viaggio a New York. (Opuscolo del Terzo Legato, ottobre 1950)
27D – Perché la Conferenza del Servizio Generale non dovrebbe essere un governo per Alcolisti Anonimi?
27R – Ogni Gruppo A.A. è autonomo; la nostra unica “autorità” è un Potere Superiore. In pratica, nessun Gruppo A.A. accetterebbe un governo personale – siamo fatti così. Sebbene la Conferenza guiderà la Sede centrale di A.A., non deve mai pretendere di governare A.A. nel suo insieme.
Pur potendo esprimere pubblicamente disapprovazione per l’uso improprio del nome A.A. o per deviazioni dalla Tradizione, non dovrebbe mai tentare di punire o limitare legalmente i non conformisti – dentro o fuori A.A. Questa sarebbe la strada verso controversie pubbliche e divisioni interne.
La Conferenza ci fornirà un esempio e una guida, ma non un governo. Un governo personale è qualcosa che, Dio volendo, Alcolisti Anonimi non avrà mai. Autorizzeremo servitori ad agire per noi, non governanti. (Opuscolo del Terzo Legato, ottobre 1950)
28D – Quanti tossicodipendenti ci sono in A.A. e nell’organizzazione simile ad A.A. che opera tra i tossicodipendenti?
28R – Abbiamo un certo numero di tossicodipendenti che erano precedentemente alcolisti. Finora, non conosco alcun caso di tossicodipendenza pura che siamo riusciti ad avvicinare. In altre parole, non riusciamo ad avvicinare un tossicodipendente “puro” così come un estraneo di solito non riesce ad avvicinare noi. Siamo esattamente nella stessa posizione con loro in cui si trovavano medici e religiosi rispetto agli alcolisti. Semplicemente non parliamo la loro lingua. Loro ci guardano e dicono: “Be’, quegli alcolisti sono la feccia della terra e poi, cosa sanno della dipendenza?”
Tuttavia, ora che abbiamo un buon numero di tossicodipendenti che erano precedentemente alcolisti, questi a loro volta stanno facendo degli sforzi, qua e là, per trasferire il metodo ai tossicodipendenti puri. In questo modo speriamo che si possa costruire un ponte. Potrebbero esserci alcuni casi isolati che sono stati aiutati. Ma in totale, suppongo che ci siano circa 50 casi di vera morfinodipendenza tra ex-alcolisti che sono stati aiutati da A.A. Naturalmente abbiamo molti consumatori di barbiturici, ma non li consideriamo particolarmente difficili se davvero vogliono fare qualcosa al riguardo; specialmente se associato all’alcol. Sembrano uscirne dopo un po’. Ma quando si tratta di morfina o alcuni altri derivati, allora diventa molto più dura. In quel caso deve essere un “drogato” a parlare con un “drogato”, e spero che un giorno potremo trovare un ponte verso i tossicodipendenti. (Scuola Estiva di Yale sugli Studi sull’Alcol, giugno 1945)
29D – A cosa serve il diritto di appello?
29R – Circa cent’anni fa giunse in questo paese un barone francese, la cui famiglia e lui stesso erano stati devastati dalla Rivoluzione francese: Alexis de Tocqueville, un ammiratore della democrazia. A quei tempi, la democrazia era concepita soprattutto come il governo della maggioranza semplice. E lui era un fervente ammiratore dello spirito democratico espresso dal potere della maggioranza di governare.
Ma, disse Tocqueville, una maggioranza può essere ignorante, può essere brutale, può essere tirannica – e noi l’abbiamo visto. Perciò, a meno che non si protegga con estrema cura una minoranza, grande o piccola che sia, assicurandosi che le opinioni minoritarie vengano espresse e che alle minoranze siano garantiti diritti speciali, la vostra democrazia non funzionerà mai e il suo spirito morirà. Questa era la previsione di Tocqueville e, considerando i tempi odierni, è strano che oggi non sia molto letto?
Ecco perché in questa Conferenza cerchiamo di ottenere un consenso unanime quando possibile; ed ecco perché stabiliamo che la Conferenza possa deliberare vincolanti per il Consiglio di Amministrazione con una maggioranza dei due terzi. Ma abbiamo aggiunto qualcosa di più. Abbiamo stabilito che ogni Delegato, ogni Fiduciario, ogni membro dello staff, ogni direttore dei servizi – ogni consiglio, comitato o altro – ovunque esista una minoranza, questa minoranza avrà sempre il diritto di presentare una relazione minoritaria affinché il suo punto di vista sia esposto chiaramente. E se, secondo l’opinione di qualsiasi minoranza, anche di una sola persona, la maggioranza sta per agire con fretta o rabbia in modo tale da poter arrecare grave danno ad Alcolisti Anonimi, non solo hanno il diritto di presentare un ricorso minoritario, ma ne hanno il dovere.
Quindi, come Tocqueville, né voi né io vogliamo né la tirannia della maggioranza, né la tirannia di una piccola minoranza. E qui sono state prese misure per bilanciare questi rapporti. (Conferenza del Servizio Generale, 1960)
30D – Gli alcolisti sono nevrotici?
30R – È possibile che circa la metà dei nostri membri, se non fossero stati bevitori, sarebbero apparsi nella vita ordinaria come persone normali. L’altra metà sarebbe invece apparsa come più o meno chiaramente nevrotica. (New York State Journal of Medicine, Vol. 44, agosto 1944)
31D – Cos’è l’alcolismo?
31R – L’alcolismo è una malattia; significa che qualcosa di profondamente sbagliato accade in noi a livello fisico; che la nostra reazione all’alcol è cambiata; che qualcosa è stato molto sbagliato in noi anche a livello emotivo; che la nostra abitudine alcolica è diventata un’ossessione, un’ossessione che non riesce più a tener conto persino della morte stessa. Una volta radicata, non siamo in grado di deviarla. In altre parole, una sorta di allergia del corpo che garantisce che moriremo se beviamo, e un’ossessione della mente che garantisce che continueremo a bere. Questo è stato il dilemma dell’alcolista fin dai tempi più remoti, ed è del tutto probabile che, anche tra quegli alcolisti che non desideravano continuare a bere, non più di cinque su cento siano mai stati in grado di smettere prima di A.A. (Scuola Estiva di Yale sugli Studi sull’Alcol, giugno 1945)
32D – Alcolisti Anonimi è una nuova religione? Un concorrente della Chiesa?
32R – Se questi timori avessero un fondamento reale, sarebbero certamente gravi. Ma Alcolisti Anonimi non può in alcun modo essere considerato una nuova religione. I nostri Dodici Passi non hanno contenuto teologico, eccetto quello che parla di “Dio come lo concepiamo”. Ciò significa che ogni singolo membro AA può definire Dio secondo la propria fede o credo. Pertanto non c’è il minimo interferenza con le convinzioni religiose di alcun membro. Il resto dei Dodici Passi definisce atteggiamenti morali e pratiche utili, tutte di carattere chiaramente cristiano. Quindi, per quanto riguarda i Passi, essi rappresentano un buon cristianesimo, anzi un buon cattolicesimo, come hanno affermato più volte scrittori cattolici.
AA non esercita neppure la minima autorità religiosa sui suoi membri. Nessuno è costretto a credere in qualcosa. Nessuno deve soddisfare condizioni di appartenenza. Nessuno è obbligato a pagare nulla. Quindi non abbiamo alcun sistema di autorità, spirituale o temporale, che sia paragonabile o in minima competizione con la Chiesa. Al centro della nostra società c’è un Consiglio di Amministrazione. Questo organo risponde annualmente a una Conferenza di Delegati eletti. Questi Delegati rappresentano la coscienza e le esigenze di AA per quanto riguarda questioni funzionali o di servizio. La nostra Tradizione contiene un’esplicita direttiva che questi Fiduciari non devono mai costituirsi come un governo – il loro compito è semplicemente fornire alcuni servizi che permettono ad AA nel suo insieme di funzionare. Gli stessi principi si applicano a livello di gruppo e di area.
Il dottor Bob, il nostro co-fondatore, aveva le sue convinzioni religiose. Io ho le mie, per quanto possano valere. Ma entrambi abbiamo più volte dichiarato che queste opinioni e preferenze personali non possono in alcun caso essere inserite nel programma AA come parte integrante di esso. AA è una sorta di scuola materna spirituale, ma nulla più. Non dovrebbe mai essere definita una religione. (The ‘Blue Book’, Vol. 12, 1960)
R – Alcolisti Anonimi non è un’organizzazione religiosa; non c’è dogma. L’unica proposizione teologica è un “Potere più grande di noi stessi”. Persino questo concetto non è imposto a nessuno. Il nuovo arrivato si immerge semplicemente nella nostra società e prova il programma come meglio può. Lasciato a sé stesso, certamente riferirà l’inizio di un’esperienza trasformativa, chiamala come vuoi. Un tempo gli osservatori pensavano che AA potesse interessare solo i religiosamente predisposti. Eppure tra i nostri membri c’è un ex membro della Società Atea Americana e circa 20.000 altri casi quasi altrettanto difficili. Chi è in punto di morte può diventare straordinariamente aperto. Naturalmente oggi parliamo poco di conversione perché tante persone temono davvero di essere “morse da Dio”. Ma la conversione, nel senso ampio descritto da James, sembra essere il nostro processo fondamentale; tutti gli altri strumenti ne sono solo il fondamento. Quando un alcolista lavora con un altro, non fa che consolidare e sostenere quell’esperienza essenziale. (Amer. J. Psych., Vol. 106, 1949)
33D – Qual è il tasso di successo degli Alcolisti Anonimi?
33R – Tra coloro che sono sinceramente disposti a smettere di bere, circa il 50% lo ha fatto immediatamente, il 25% dopo alcune ricadute e la maggior parte del resto ha mostrato miglioramenti. (N.Y. State J. Med., Vol. 44, Aug., 1944).
Un’altra risposta
33R – Al 1949, i nostri risultati quantitativi sono questi. La società degli Alcolisti Anonimi, fondata 14 anni fa, conta 80.000 membri in circa 3.000 gruppi. Ci siamo espansi in circa 30 paesi stranieri e territori degli Stati Uniti; le traduzioni sono in corso. Per occupazione, rappresentiamo un accurato spaccato dell’America. Per affiliazione religiosa, siamo circa il 40% cattolici, protestanti nominali e attivi, oltre a molti ex agnostici e una piccola percentuale di ebrei. Dal 10 al 15% sono donne. Alcuni afroamericani stanno recuperando senza eccessive difficoltà. L’approvazione da parte delle massime autorità mediche e religiose è quasi universale. Gli iscritti agli A.A. stanno crescendo a catena del 30% all’anno. Nel 1949 ci aspettiamo almeno 20.000 recuperi permanenti. La metà di questi saranno casi medi o lievi, con un’età media di 36 anni – uno sviluppo abbastanza recente.
Degli alcolisti che rimangono con noi e ci provano seriamente, il 50% diventa sobrio subito e rimane tale, il 25% ci riesce dopo alcune ricadute e il resto mostra qualche miglioramento. Tuttavia, molti bevitori problematici abbandonano gli A.A. dopo un breve contatto, circa tre o quattro su cinque. Alcuni sono troppo psicopatici o danneggiati. Ma la maggior parte ha potenti razionalizzazioni che devono ancora essere superate. Questo accade esattamente se ricevono quello che gli A.A. chiamano un “buon primo contatto”. L’alcol allora accende sotto di loro un fuoco così intenso che sono costretti a tornare da noi, spesso anni dopo. Ci dicono che hanno dovuto tornare: era A.A. o niente. Questi casi ci lasciano con l’impressione positiva che metà dei nostri primi contatti tornerà prima o poi, molti per recuperare. (Amer. J. Psychiatry Vol. 106, 1949).
Un’altra risposta
33R – Attualmente si verificano circa duemila recuperi al mese. Tra gli alcolisti che desiderano guarire e sono emotivamente in grado di provare il nostro metodo, il 50% recupera immediatamente, il 25% dopo qualche ricaduta. Il resto mostra miglioramenti se rimane attivo negli A.A. Sul totale di chi si avvicina a noi, probabilmente solo il 25% diventa membro degli A.A. al primo contatto. Un elenco di settantacinque nostri primi fallimenti rivela che 70 sono tornati agli A.A. dopo uno-dieci anni. Non siamo stati noi a riportarli indietro; sono venuti di loro iniziativa. (N.Y. State J. Med., Vol. 50, July 1950).
Un’altra risposta
33R – Man mano che crescevamo, aumentava anche la nostra efficacia. Il tasso di recupero è migliorato. Tra tutti coloro che hanno provato seriamente A.A., il 50% ha smesso subito, il 25% alla fine ce l’ha fatta, e gli altri, se sono rimasti con noi, hanno comunque ottenuto un netto miglioramento. Questa percentuale si è mantenuta nel tempo, persino tra coloro che scrissero le loro storie nella prima edizione di “Alcolisti Anonimi”. Anzi, il 75% di loro raggiunse infine la sobrietà. Solo il 25% morì o impazzì. La maggior parte di quelli ancora in vita è sobria da una media di vent’anni.
Fin dai primi tempi e ancora oggi, abbiamo visto molti alcolisti avvicinarsi a noi per poi allontanarsi – forse tre su cinque, attualmente. Ma abbiamo scoperto con gioia che la maggioranza, in seguito, ritorna, a meno che non siano troppo psicopatici o con danni cerebrali irreversibili. Una volta che apprendono dalle labbra di altri alcolisti di essere affetti da un male spesso fatale, continuare a bere non fa che peggiorare la situazione. Alla fine sono costretti a tornare in A.A., perché per loro è l’unica alternativa alla morte. A volte questo avviene anni dopo il primo contatto. Il tasso di recupero definitivo in A.A. è quindi molto più alto di quanto inizialmente pensassimo.
Tuttavia, dobbiamo riconoscere con umiltà che, finora, Alcolisti Anonimi ha solo scalfito il problema complessivo dell’alcolismo. Qui negli Stati Uniti, abbiamo contribuito a far smettere di bere appena il 5% della popolazione alcolica totale, che conta 4.500.000 persone. (N.Y. Med. Society on Alcoholism, 1958).
Un’altra risposta
33R – I membri di A.A. possono chiedersi con sobrietà che fine abbiano fatto i 600.000 alcolisti che negli ultimi trent’anni si sono avvicinati alla Comunità senza però rimanere. Quanto e quanto spesso abbiamo fallito con loro? Quando consideriamo che, in 20 anni di esistenza degli A.A., siamo riusciti a raggiungere meno del 10% di tutti coloro che potrebbero essere disposti a rivolgersi a noi, iniziamo a renderci conto dell’immensità del nostro compito e delle responsabilità che dovremo sempre affrontare. (G.S.C. 1958).
Un’altra risposta
33R – Ho preso atto del fatto che, nella generazione che ha visto nascere gli A.A., in questi venticinque anni, un’enorme processione di ubriaconi del mondo è passata davanti a noi ed è finita nel baratro. Sulla base dei dati che ho raccolto con cura, a livello mondiale sembra ce ne siano stati circa 25 milioni, e da quel fiume di disperazione, malattia, miseria e morte – negli ultimi 25 anni ne abbiamo salvato solo uno su cento. Penso però che oggi stiamo pescando in modo un po’ più ampio ed efficace.
I nostri numeri sono considerevoli. Attestano il nostro spessore. C’è una grande sicurezza nei numeri. Non potete immaginare com’era nei primissimi due o tre anni, quando nessuno era sicuro che qualcuno potesse davvero rimanere sobrio… Allora eravamo come i naufraghi sulla zattera di Eddie Rickenbacker. Se qualcuno osava dondolarla anche solo un po’, veniva subito pestato e poi gettato in mare. Ma oggi è diverso. Accanto alla maggiore sicurezza data dai numeri, è arrivata anche una certa dose di responsabilità. Spesso succede che, più persone ci sono per fare un lavoro, meno lo fanno davvero. In altre parole, quel che è affare di tutti non è affare di nessuno. Quindi la crescita porta inevitabilmente al compiacimento, a meno che non diventiamo sempre più consapevoli di ciò che sta accadendo. (Trascrizione da registrazione. GSC, 1960)
34D – Quale contributo ha dato il dottor Carl Jung agli A.A.?
34R – Pochi sanno che la prima radice degli A.A. affonda in uno studio medico circa trent’anni fa. Il dottor Carl Jung, quel grande pioniere della psichiatria, stava parlando con un paziente alcolista. Ecco cosa accadde, in sostanza:
Il paziente, un importante uomo d’affari americano, aveva percorso la tipica trafila dell’alcolista. Dopo aver esaurito le possibilità offerte dalla medicina e dalla psichiatria negli Stati Uniti, si era rivolto al dottor Jung come a un’ultima speranza. Jung lo aveva trattato per un anno, e il paziente, che chiameremo Sig. R., era convinto che le cause nascoste della sua compulsione a bere fossero state scoperte e rimosse. Eppure, poco dopo aver lasciato le cure di Jung, si ritrovò di nuovo ubriaco.
Ora era tornato, in uno stato di disperazione totale. Chiese a Jung di dirgli la verità, e la ottenne. In sostanza, Jung gli disse: “Per un po’ dopo il tuo arrivo, ho continuato a credere che potessi essere uno di quei rari casi in grado di guarire. Ma ora devo ammettere con franchezza che non ho mai visto un solo paziente con una nevrosi grave come la tua recuperare attraverso l’arte psichiatrica. La medicina ha fatto tutto ciò che poteva per te, e questa è la situazione.”
La depressione del Sig. R. si approfondì. Chiese: “Non c’è davvero nessuna eccezione? Per me è veramente la fine?”
“Be’,” rispose il dottore, “ci sono alcune eccezioni, pochissime. Ogni tanto, qua e là, alcuni alcolisti hanno avuto quelle che vengono chiamate esperienze spirituali vitali. Sembrano consistere in un completo riassestamento emotivo. Idee, emozioni e atteggiamenti che un tempo guidavano questi uomini vengono improvvisamente messi da parte, e un insieme completamente nuovo di concezioni e motivazioni inizia a dominarli. In effetti, ho cercato di produrre in te un simile riarrangiamento emotivo. Con molti tipi di nevrotici, i metodi che uso funzionano, ma non ho mai avuto successo con un alcolista come te.”
“Ma,” obiettò il paziente, “io sono un uomo religioso, e ho ancora fede.”
A questo, Jung rispose: “La semplice fede religiosa non basta. Quello di cui parlo è un’esperienza trasformativa, una sorta di conversione, se vuoi. Posso solo consigliarti di immergerti in un’atmosfera religiosa a tua scelta, di riconoscere la tua disperazione, e di abbandonarti a qualsiasi Dio in cui credi. Allora, forse, il fulmine dell’esperienza trasformativa potrebbe colpirti. Devi provare questa strada—è la tua unica via d’uscita.” Così parlò il grande e umile medico.
Per il futuro A.A., fu un colpo decisivo. La scienza aveva dichiarato il Sig. R. praticamente senza speranza. Le parole di Jung lo colpirono nel profondo, producendo una smisurata deflazione del suo ego. La “deflazione a fondo” è oggi un principio cardine degli A.A., e fu applicata per la prima volta per noi proprio nello studio del dottor Jung.
Il paziente, il Sig. R., scelse i Gruppi Oxford dell’epoca come sua associazione e atmosfera religiosa. Umiliato e quasi impotente, iniziò a partecipare attivamente. Con sua grande gioia e stupore, l’ossessione di bere presto scomparve.
Tornato in America, il Sig. R. incontrò un mio vecchio amico di scuola, un alcolista cronico che chiameremo Ebby, sul punto di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico. A questo punto, un altro ingrediente vitale si aggiunse al quadro. Il Sig. R., un alcolista, iniziò a parlare con Ebby, anch’egli alcolista e sofferente come lui. Ciò creò un’identificazione profonda—un secondo principio fondamentale. Attraverso questo ponte di identificazione, il Sig. R. trasmise a Ebby il verdetto di Jung sull’incurabilità medica e psichiatrica della maggior parte degli alcolisti. Poi presentò Ebby ai Gruppi Oxford, dove il mio amico smise di bere. (N.Y. City Med. Soc. Alcsm., 28 aprile 1958)
35D – Che effetto ebbe su di te il messaggio di Ebby?
35R – Beh, a quel punto sapevo quanto fosse disperata la mia situazione di alcolista, eppure continuavo a ribellarmi — l’idea di dipendere da un Dio intangibile che forse non esisteva nemmeno. Oh, se solo fossi riuscito ad accettarlo! Ma ci sarei riuscito? Continuai a bere per diversi giorni, finché, sempre più agitato, cominciai a pensare di ricoverarmi. Poi, improvvisamente, un giorno mi venne in mente: “Stupido! Perché dovresti mettere in discussione come guarire? Perché i mendicanti dovrebbero fare gli schizzinosi? Se avessi un cancro e ne fossi certo, e il tuo medico ti dicesse: ‘È così maligno che la nostra scienza non può nulla’, e poi arrivasse qualcuno con la storia improbabile che molti sono guariti stando a testa in giù in piazza gridando ‘Amen! ’— e se riuscisse davvero a dimostrarlo — ehi, Bill Wilson, se avessi il cancro, saresti anche tu in piazza, ridicolmente a testa in giù a gridare ‘Amen!’ pur di fermare quelle cellule. Sarebbe la tua priorità assoluta, e il tuo orgoglio dovrebbe sparire.”
Allora mi chiesi: “La mia situazione è diversa ora? Non ho forse un’allergia fisica? Non ho forse un cancro delle emozioni — sì, e forse un cancro dell’anima che mi ha portato a un’ossessione che mi condanna a bere e a una tolleranza sempre maggiore che mi condanna alla follia o alla morte? Sì, devo provare questa strada.”
Poi ci fu un’ultima scintilla di ostinazione quando dissi a me stesso: “Ma non voglio nessuna di queste esperienze evangeliche emotive. Dovrà essere una religione intellettuale, quella che troverò. Quindi, per assicurarmi di non finire in preda all’isteria, credo che andrò dal caro vecchio dottor Silkworth a farmi disintossicare.” *(Memphis, Tennessee, 18-20 settembre 1947)*
Un’altra risposta
35R – Cosa accadde davvero a quel tavolo di cucina? Forse sarebbe meglio lasciare questa riflessione alla medicina e alla religione. Confesso di non saperlo. È possibile che la conversione non sarà mai pienamente compresa.
Il racconto del mio amico aveva suscitato in me emozioni contrastanti; ero attratto e respinto a turno. Continuai a bere da solo, ma non riuscivo a dimenticare la sua visita. Diversi pensieri mi attraversavano la mente:
Primo, che il suo evidente stato di liberazione era stranamente e profondamente convincente.
Secondo, che era stato dichiarato senza speranza da medici competenti.
Terzo, che quei precetti antichi, quando trasmessi da lui, mi avevano colpito con grande forza.
Quarto, che non potevo, e non volevo, accettare alcun concetto di Dio. Niente storie di conversione per me.
Così riflettevo. Cercai di distogliere i miei pensieri, ma fu inutile. Con legami di comprensione, sofferenza e semplice verità, un altro alcolista mi aveva legato a sé. Non mi sarei più liberato.(Amer J. Psychiat., Vol.106, 1949)
Un’altra risposta
35R – Per prima cosa mi raccontò la sua esperienza con l’alcol, accentuandone gli orrori più recenti. Naturalmente, l’identificazione con me fu immediata e, come si rivelò, profondamente vitale. Un alcolista parlava con un altro come solo un alcolista può fare. Poi mi offrì la sua formula di recupero, ingenua nella sua semplicità. Non una sola sillaba era nuova, eppure mi colpì profondamente.
Lì sedeva, sobrio. Un esempio vivente di ciò che predicava. Noterete che il suo unico dogma era Dio, che per farmelo digerire trasformò in un’espressione più accomodante: “Un Potere più grande di me”. Questa era la sua storia. Potevo prenderla o lasciarla. Non dovevo sentirmi in obbligo verso di lui. Anzi, osservò, gli facevo un favore ad ascoltarlo. Inoltre era evidente che possedeva qualcosa di più della solita sobrietà da “astinenza forzata e temporanea”. Sembrava e agiva come uno “liberato”; la repressione non era stata la sua risposta. Tale era l’impatto di un alcolista che conosceva davvero il gioco. (N.Y. State J. Med., Vol.50, luglio 1950)
36D – Perché i religiosi spesso falliscono con gli alcolisti, mentre gli A.A. spesso riescono? È possibile che la grazia degli A.A. sia superiore a quella della Chiesa?
36R – Nessun religioso, per il semplice fatto di non essere un canale di grazia per gli alcolisti, dovrebbe mai pensare che la sua Chiesa sia priva di grazia. Non si tratta affatto di una questione di grazia – è solo una questione di chi può trasmettere al meglio l’abbondanza di Dio. Succede semplicemente che noi, che abbiamo sofferto di alcolismo, noi che possiamo identificarci così profondamente con altri sofferenti, siamo quelli solitamente più adatti a questo particolare lavoro. Certamente, nessun religioso dovrebbe sentirsi inferiore solo perché non è lui stesso un alcolista. (N.C.C.A., ‘Blue Book’, Vol.12, 1960)
Un’altra risposta
36R – Ritenevo la risposta molto semplice. La Chiesa possiede la spiritualità, ma nel caso degli ubriaconi, non aveva la capacità di comunicazione per spianare la strada – da un alcolista all’altro – affinché la Grazia potesse discendere. Quindi voi avete la spiritualità (che noi abbiamo preso in prestito), e noi abbiamo la comunicazione. Perciò non siamo affatto in competizione; insieme possiamo realizzare ciò che non riusciamo a fare separatamente. (Trascrizione da registrazione. G.S.C. 1960)
Un’altra domanda sullo stesso tema
36D – Cosa possono fare i ministri del culto per collaborare con gli A.A.?
36R – L’approccio con l’alcolista è fondamentale. Penso che il predicatore potrebbe ottenere buoni risultati seguendo il nostro metodo. Prima di tutto, raccogliere quante più informazioni possibili sul caso: come reagisce l’uomo, se davvero vuole smettere di bere o no. Vedete, è molto difficile fare breccia in un uomo che ancora vuole bere. A un certo punto della loro carriera alcolica, la maggior parte degli alcolisti viene punita a sufficienza da voler smettere, ma allora è già troppo tardi per farlo da soli.
A volte, se si riesce a far comprendere all’alcolista che è un malato, o un potenziale malato, si solleva per lui il “fondo” invece di lasciarlo sprofondare negli anni durissimi necessari per toccarlo. Non conosco sostituti alla simpatia e alla comprensione, per quanto un estraneo possa offrirne. Niente prediche, niente moralismi, ma enfasi sull’idea che l’alcolista è un malato.
In altre parole, il ministro potrebbe iniziare dicendo all’alcolista: “Per tutta la vita vi ho fraintesi, vi ho considerati immorali per scelta, perversi e deboli. Ma ora capisco che, anche se questi fattori fossero esistiti, non contano più: ora sei un malato”. Potreste conquistare il paziente non ponendovi in cima a un colle e guardandolo dall’alto, ma scendendo a un livello di comprensione che lui afferra, almeno in parte. Poi, se presentate questa condizione come un male fatale e progressivo, e il nostro gruppo come persone che non vogliono imporgli nulla – desideriamo solo aiutarlo, se vuole essere aiutato – allora a volte avrete gettato le basi.
Penso che i religiosi possano fare molto con la famiglia. Noi alcolisti tendiamo a parlare troppo di noi stessi senza considerare abbastanza gli effetti collaterali. Per esempio, qualsiasi famiglia – moglie e figli – costretta a vivere con un alcolista per 10 o 15 anni, finisce per diventare piuttosto nevrotica e distorta. È inevitabile. Quando ti aspetti che il capofamiglia torni a casa ogni notte portato a braccia, è logorante. I figli sviluppano una visione distorta; lo stesso la moglie. Se sentono continuamente dire che quest’uomo è un peccatore terribile, un farabutto, uno svergognato e simili, non si migliora affatto la situazione familiare, perché, convincendosene, diventano intolleranti verso l’alcolista, il che genera ulteriore intolleranza in lui. Così, il divario da colmare si allarga, ed ecco perché il moralismo allontana dall’alcolista chi potrebbe invece aiutarlo. Potreste obiettare che non dovrebbe essere così, ma è una di quelle cose che semplicemente sono così. (Yale Summer School of Alcohol Studies, giugno 1945)
37D – Qual è il rapporto degli AA con la comunità?
37R – Ora che i nostri metodi e risultati sono più conosciuti, riceviamo ovunque una splendida collaborazione da religiosi, medici, datori di lavoro, giornalisti – in effetti, da intere comunità. Sebbene permanga una comprensibile riluttanza da parte degli ospedali cittadini e privati ad ammettere pazienti alcolisti, siamo lieti di segnalare un grande miglioramento in questo senso. Tuttavia, nella maggior parte dei luoghi, siamo ancora lontani dall’avere strutture ospedaliere adeguate.
Oltre a questa attività tradizionale, possiamo offrire alcuni consigli a coloro che lavorano su vari aspetti del problema complessivo. Forse la nostra esperienza ci rende adatti a un compito speciale. Scrivendo di Alcolisti Anonimi, il dottor Harry Emerson Fosdick osservò: “Non solo le vetrate delle cattedrali gotiche si vedono bene solo dall’interno. Lo stesso vale per l’alcolismo. Tutte le visioni esterne sono confuse e incerte”. Così, con la nostra visione interna – quella che meglio colgono i bevitori che hanno sofferto di alcolismo – vogliamo aiutare chi si occupa di problemi alcolcorrelati senza averne esperienza diretta.
Pur non essendo scienziati, la nostra prospettiva unica può aiutare la scienza; pur appartenendo a tutte le religioni o talvolta a nessuna, possiamo assistere i religiosi; pur non essendo educatori, forse contribuiremo a chiarire visioni distorte; pur non essendo esperti di penologia, aiutiamo nel lavoro carcerario; pur non essendo un’azienda o un’organizzazione, consigliamo i datori di lavoro; pur non essendo sociologi, serviamo costantemente famiglie, amici e comunità; pur non essendo pubblici ministeri o giudici, promuoviamo comprensione e giustizia; pur non essendo assolutamente medici, ci prendiamo cura dei malati. Senza schierarci su questioni controverse, a volte mediiamo antagonismi sterili che spesso hanno ostacolato la collaborazione tra chi vorrebbe risolvere l’enigma dell’alcolista.
Queste sono le attività e le aspirazioni di migliaia di membri degli Alcolisti Anonimi. Sebbene la nostra organizzazione nel suo insieme abbia un solo obiettivo – aiutare l’alcolista che desidera guarire – alcuni di noi, come individui, sentono anche la responsabilità di affrontare alcuni dei compiti più ampi per cui siamo particolarmente preparati. (Quart. J. Stud. Alc., Vol.6, Sept., 1945)
Un’altra risposta
37R – Molti alcolisti oggi vengono indirizzati ad A.A. dai loro stessi psichiatri. Liberatosi dall’alcol, il paziente torna dal medico come un soggetto molto più gestibile. Praticamente ogni moglie di alcolista è diventata, in una certa misura, una madre possessiva. La maggior parte delle donne alcoliste, se ancora sposate, convivono con un marito perplesso che assume il ruolo di padre confuso. Questo a volte crea non pochi problemi. E noi di A.A. dovremmo saperlo meglio di chiunque altro! Quindi, signori, ecco un grosso problema che cade proprio nel vostro campo.
Noi di A.A. cerchiamo di essere consapevoli che potremmo affrontare solo una parte del problema alcolismo totale. Ci sforziamo di ricordare che il nostro crescente successo potrebbe rivelarsi un vino inebriante; voi uomini e donne della medicina sarete nostri partner? Medici che brandite con maestria i vostri bisturi invisibili? Operatori tutti uniti in questa causa comune? Ci piace pensare che Alcolisti Anonimi rappresenti un terreno d’incontro tra medicina e religione, il catalizzatore mancante per una nuova sintesi. Tutto questo affinché i milioni che ancora soffrono possano presto emergere dalle tenebre alla luce del giorno! (Amer. J. Psychiat., Vol. 106, 1949)
Un’altra risposta
37R – Un tempo, Alcolisti Anonimi si trovava in una terra di nessuno tra medicina e religione. I religiosi ci consideravano non ortodossi; la medicina ci giudicava completamente antiscientifici. L’ultimo decennio ha portato un grande cambiamento in questo senso. I religiosi di ogni denominazione oggi dichiarano che, sebbene A.A. non contenga un briciolo di dogma, possiede una base spirituale impeccabile, perfettamente accettabile per persone di ogni credo, persino per l’agnostico. Voi signori della medicina avete anche osservato che A.A. è psichiatricamente valido nei suoi limiti e che rimanda alla vostra professione tutte le patologie fisiche dei suoi membri. Pertanto, è ora chiaro che Alcolisti Anonimi è una costruzione sintetica che attinge a tre fonti: la scienza medica, la religione e la sua particolare esperienza. Togliete uno di questi sostegni e la sua piattaforma stabile crollerebbe come lo sgabello a tre gambe di un contadino a cui ne venga mozzata una. Il fatto che oggi mi abbiate invitato, membro di A.A., a partecipare ai vostri consigli è un felice segno di questo cambiamento, e la nostra società ne è profondamente grata.
Con cosa ha dunque contribuito Alcolisti Anonimi come terzo partner di questa sintesi terapeutica che promette tanto ai sofferenti di tutto il mondo? A.A. contiene forse nuovi principi? In senso stretto, no. A.A. semplicemente mette in relazione l’alcolista con verità già sperimentate in un modo completamente nuovo. Ora egli riesce ad accettarle dove prima non poteva. Ora ha un programma concreto d’azione e il sostegno comprensivo di una società di suoi simili in cui realizzarlo. Con ogni probabilità, questi sono gli anelli mancanti nella catena della guarigione.(N.Y. State J. Med., Vol. 50, luglio 1950)
38D – Perché la Conferenza del Servizio Generale?
38R – Riteniamo che Alcolisti Anonimi avrà sempre bisogno di un centro mondiale – un punto di riferimento globale dove i nostri pochi ma importanti servizi universali possano convergere per poi irradiarsi a tutti coloro che desiderano informazioni o aiuto. Un luogo simile sarà sempre necessario per curare le nostre relazioni pubbliche generali, rispondere alle richieste, favorire la nascita di nuovi Gruppi e distribuire i nostri libri e pubblicazioni standard. Avremo anche bisogno di un luogo di consulenza e mediazione per questioni importanti di politica generale o Tradizione A.A. Ci servirà inoltre un deposito sicuro per i modesti fondi che useremo per questi scopi semplici ma universali.
Naturalmente dobbiamo assicurarci che il nostro centro di servizio universale non tenti mai di disciplinare o governare. Al contrario, dovremmo proteggere i nostri buoni servitori che vi lavorano da richieste irragionevoli o politiche di qualsiasi tipo. Nessun potere personale, nessun funzionario o titolo altisonante, nessuna politica, nessun accumulo di denaro o proprietà, nient’altro che servizi vitali e universali per Alcolisti Anonimi – questo è il nostro ideale. Fare a meno di un tale Centro significherebbe invitare confusione e disunione; installarvi un’autorità centralizzata incoraggerebbe conflitti politici e divisioni. Avremo sicuramente bisogno di un minimo di organizzazione dei nostri servizi, saldamente vincolata dalla tradizione – quanto basta per prevenire permanentemente qualsiasi eccesso.
Al centro di A.A. abbiamo ora un eccellente organismo di custodia e servizio. I nostri Amministratori sono gradualmente diventati il simbolo della coscienza collettiva di A.A., il nostro ufficio generale agisce come un cuore che riceve problemi attraverso le vene e pompa assistenza attraverso innumerevoli arterie, e The Grapevine cerca di registrare la vera voce di Alcolisti Anonimi. Lo stato attuale dei nostri affari centrali è così felice che dobbiamo certamente impegnarci a preservarlo e proteggerlo, speriamo, per un futuro lungo e utile.
Pertanto, il problema futuro della nostra sede consisterà probabilmente nel preservare e proteggere, nelle sue linee principali, ciò che già abbiamo. Come possiamo allora mantenere intatto il nostro ideale di servizio? Come evitare politiche nazionali o internazionali? Come predisporci contro qualsiasi possibile collasso dell’attuale Sede del Servizio A.A.? E come possiamo dare a ogni membro A.A. nel mondo la costante rassicurazione che tutto procede bene, che continua a svolgere i suoi compiti efficacemente, meritando così il suo caldo sostegno morale e finanziario?
Molti stanno riflettendo con preghiera su questi problemi del domani. I membri A.A. iniziano a chiedersi: chi o cosa garantirà il funzionamento della nostra Sede Generale quando i veterani che l’hanno inaugurata non ci saranno più, specialmente pionieri come il dottor Bob e Bill? Ben conosciuti da noi del periodo pionieristico, queste figure mantengono ancora una posizione unica. Godono di una fiducia più ampia ed esercitano un’influenza personale maggiore di chiunque altro potrebbe – o dovrebbe – fare in futuro. Dopo aver aiutato a istituire il nostro Centro di Servizio universale, ci hanno chiesto di aver fiducia in esso. E questa fiducia c’è, non tanto perché conosciamo gli attuali Amministratori, ma perché conosciamo Bob, Bill e gli altri veterani. Ma nel lungo futuro, quando questi anziani non potranno più rassicurarci, chi prenderà il loro posto? Non sembra chiaro che il movimento A.A. e il suo Centro di Servizio debbano presto avvicinarsi? Anche se conosciamo abbastanza bene il nostro Ufficio Generale e The Grapevine, non dovremmo in qualche modo avvicinarci di più ai nostri Amministratori? Non dovremmo fare passi per alleviare il senso di distacco mentre i veterani sono ancora tra noi e c’è ancora tempo per sperimentare? Queste sono le domande che ci poniamo oggi, e sono buone domande.
Forse il miglior suggerimento per colmare il divario tra la nostra Fondazione e i Gruppi A.A. è l’idea di creare quella che potremmo chiamare la Conferenza dei Servizi Generale di Alcolisti Anonimi. (Proposta di Bill W. e del dottor Bob alla Fondazione, aprile 1947)
Un’altra risposta
38R – Affrontiamo questi fatti (ottobre 1950).
Primo. Io e il dottor Bob siamo mortali, non possiamo durare per sempre.
Secondo. Gli Amministratori sono quasi sconosciuti ai membri di A.A.
Terzo. In futuro i nostri Amministratori non potrebbero funzionare senza una guida diretta da A.A. stesso. Qualcuno deve consigliarli. Qualcuno, o qualcosa, deve prendere il posto mio e del dottor Bob.
Quarto. Alcolisti Anonimi non è più nella sua infanzia. Ora adulta, ha pieno diritto e chiaro dovere di assumersi la diretta responsabilità della propria Sede Centrale.
Quinto. È chiaro quindi che, a meno che la Fondazione non sia saldamente ancorata – attraverso rappresentanti statali e provinciali – al movimento che serve, un collasso della Sede Centrale sarà un giorno inevitabile. Quando i suoi veterani scompariranno, una Fondazione isolata non sopravviverebbe a un solo grave errore o seria controversia. Qualsiasi tempesta potrebbe abbatterla. La sua rinascita non sarebbe semplice. Forse non potrebbe mai più rinascere. Ancora isolata, non ci sarebbero mezzi per farlo. Come una bella auto senza benzina, sarebbe impotente.
Sesto. Un altro grave difetto: nel complesso, il movimento A.A. non ha mai affrontato una grave crisi. Ma un giorno dovrà farlo. Le vicende umane essendo ciò che sono, non possiamo aspettarci di rimanere immuni dall’ora del grave pericolo. Senza supporto diretto disponibile, senza un affidabile campione dell’opinione di A.A., come potrebbero i nostri lontani Amministratori gestire un’emergenza rischiosa? Questa pericolosa “falla” nel nostro attuale assetto potrebbe garantire positivamente un disastro. La fiducia nella Fondazione andrebbe persa. Gli A.A. ovunque direbbero: “Con quale autorità gli Amministratori parlano per noi? E come sanno di avere ragione?” Con le linee vitali del Servizio A.A. ingarbugliate e recise, cosa potrebbe allora accadere al milione che non sa? Migliaia continuerebbero a soffrire o morire perché non avremmo previsto nulla, perché avremmo dimenticato la virtù della prudenza. Tutto questo non deve accadere.
Ecco perché gli Amministratori, il dottor Bob e io proponiamo ora la Conferenza del Servizio Generale di Alcolisti Anonimi. Ecco perché abbiamo urgentemente bisogno del vostro aiuto diretto. I nostri servizi principali devono continuare a vivere. Riteniamo che la Conferenza del Servizio Generale di Alcolisti Anonimi possa essere lo strumento per renderlo certo. (Opuscolo del Terzo Legato, ottobre 1950)
39D – Come si è sviluppato il legame tra i Rockefeller e Alcolisti Anonimi?
39R – Dopo l’incontro ad Akron nell’autunno del 1937, tornai a New York, come si suol dire, carico di entusiasmo. Feci allora la desolante scoperta che i ricchissimi che possedevano i fondi di cui avevamo bisogno non avevano il minimo interesse per gli ubriaconi – semplicemente non gliene importava nulla. Feci richieste su richieste e iniziai a preoccuparmi. Mi rivolsi persino alla Fondazione Rockefeller, pensando che John D. avrebbe potuto essere interessato all’alcolismo, alla sociologia, alla medicina e alla religione, e che questa fosse la soluzione ideale. Ma no, non rientravamo in alcuna categoria della Fondazione Rockefeller, che peraltro in quel periodo di depressione si sentiva un po’ a corto di fondi.
Un giorno mi trovavo nell’ufficio di mio cognato, un medico. Mi lamentavo dell’avarizia dei ricchi, del nostro bisogno di denaro e di come sembrava che la cosa non sarebbe mai decollata. Lui disse: “Hai provato con la Fondazione Rockefeller?”. Gli risposi di sì. “Be’,” disse, “forse sarebbe utile incontrare personalmente il signor Rockefeller.” Dissi: “Dottor Winn, non voglio sembrare faceto, ma potrebbe raccomandarmi anche al Principe del Galles, forse anche lui potrebbe aiutarci.”
Poi avvenne una di quelle strane svolte del destino, o della provvidenza, se preferite. Mio cognato si grattò la testa e disse: “Quando ero giovane, andavo a scuola con una ragazza che credo avesse uno zio di nome Willard Richardson. Mi sembra fosse piuttosto anziano e forse ora è morto, ma ricordo che aveva a che fare con le opere di beneficenza dei Rockefeller. E se chiamassi gli uffici dei Rockefeller per vedere se è ancora in circolazione e se si ricorda di me?”
Chiamò questo caro vecchio signore, uno dei più grandi amici non alcolisti che A.A. abbia mai avuto. Si ricordò immediatamente di mio cognato e disse: “Leonard, dove sei stato tutti questi anni? Mi farebbe piacere rivederti.”
A differenza mia, mio cognato è un uomo di poche parole e spiegò con una certa tensione di avere un parente che stava cercando di aiutare gli alcolisti e stava facendo progressi, chiedendo se potevamo andare negli uffici dei Rockefeller per parlarne. “Ma certo,” disse il vecchio signore, e presto ci trovammo alla presenza di questo meraviglioso gentiluomo cristiano, incredibilmente uno degli amici più stretti di John D. Quando lo vidi, pensai che finalmente ci stavamo avvicinando al portafoglio. Il vecchio signore mi fece alcune domande astute e io raccontai la storia fin dove era arrivata. Poi disse: “Signor Wilson, le piacerebbe pranzare con me all’inizio della prossima settimana?”. Oh sì, certo! Ora ci stavamo davvero avvicinando.
Così pranzammo insieme, e durante il pranzo disse: “Conosco tre o quattro persone che potrebbero essere molto interessate a questo. Organizzerò un incontro con loro, poiché sono amici o collaboratori del signor Rockefeller, e alcuni facevano parte di un comitato che recentemente ha raccomandato di porre fine all’esperimento del proibizionismo.”
Presto, alcuni di noi alcolisti – Smitty e un paio di persone di Akron, alcuni ragazzi di New York – ci trovammo seduti in compagnia di questi amici del signor Rockefeller nella sala riunioni privata dei Rockefeller. Mi dissero persino che ero seduto sulla stessa sedia che il signor Rockefeller aveva occupato solo mezz’ora prima. Pensai: ora ci siamo davvero.
Eravamo un po’ smarriti, a corto di parole, così ognuno di noi alcolisti iniziò a raccontare la sua storia. I nostri nuovi amici ascoltarono con grande attenzione, e poi, con riluttanza e modestia, sollevai la questione del denaro. E qui vedete come Dio abbia agito attraverso molte persone per plasmare il nostro destino. Subito, il signor Scott, seduto a capotavola, disse: “Sono profondamente colpito e commosso da ciò che è stato detto qui, ma non temete che, con il denaro, potreste creare una classe professionale? Non temete che la gestione di strutture, proprietà e ospedali possa distrarvi dai vostri obiettivi puramente di buona volontà?”
Ammettemmo di aver considerato quelle difficoltà. Alcuni nostri stessi membri ce le avevano sottolineate, ma ritenemmo che il rischio di non fare quelle cose fosse maggiore del rischio di farne almeno alcune. “Almeno,” dicemmo, “signor Scott, questa società ha bisogno di un libro in cui registrare la nostra esperienza, affinché gli alcolisti lontani possano sapere cosa è successo.”
Uno dei gentiluomini disse che sarebbe andato ad Akron, e noi lo incoraggiammo, poiché il mutuo sulla casa degli Smith era più grande del mio. Andò ad Akron e tornò con un rapporto entusiasta che il signor Richardson presentò al signor Rockefeller. Questo segnò un altro punto di svolta.
Dopo aver ascoltato la storia e letto il rapporto sul Gruppo n. 1 di Akron, il signor Rockefeller espresse il suo profondo interesse e sostegno per noi. “Ma Dick,” disse, “se diamo a questi ragazzi dei soldi veri, li rovineremo e cambieremo completamente la situazione. Forse voi pensate che abbiano bisogno di soldi, e se è così, andate avanti e procurategliene un po’. Vi dirò cosa farò: verserò una piccola somma nel tesoro della Riverside Church, e voi potrete prelevarla per aiutare almeno questi due uomini per un po’, ma questa cosa dovrebbe autosostenersi. Il denaro, Dick, la rovinerebbe.”
Che profonda realizzazione! Dio non agì attraverso di noi, ma attraverso il signor Rockefeller, i cui interessi avevamo effettivamente rappresentato da quel momento. Questo uomo che aveva dedicato la vita a donare denaro disse: “Non questa volta.” E non ci diede mai soldi veri, grazie a Dio. (Chicago, Illinois, febbraio 1951)
40D – Cosa rappresentano i Tre Legati di AA?
40R – I tre legati di AA – recupero, unità e servizio – in un certo senso rappresentano tre impossibilità, impossibilità che sappiamo essere diventate possibili, e possibilità che hanno ora prodotto questo frutto incredibile.
Il vecchio Fitz Mayo, uno dei primi membri di AA, e io visitammo il Surgeon General degli Stati Uniti nel terzo anno di questa società e gli raccontammo dei nostri inizi. Era un uomo gentile, il dottor Lawrence Kolb, ed è poi diventato un grande amico di AA. Disse: “Vi auguro il meglio. Anche la sobrietà di pochi è quasi un miracolo. Il governo sa che questo è uno dei maggiori problemi sanitari, ma abbiamo considerato il recupero degli alcolisti così impossibile che abbiamo rinunciato, concludendo invece che la riabilitazione dei tossicodipendenti fosse un compito più facile da affrontare.”
Tale era la devastante impossibilità della nostra situazione. Ora, cosa è intervenuto su questa impossibilità per renderla possibile? Primo, la grazia di Colui che presiede su tutti noi. Poi, il crudele frustino di John Barleycorn che diceva: “Questo devi fare, o morirai.” Infine, l’intervento di Dio attraverso amici, prima pochi e ora legioni!, che ci hanno aperto, noi che agli inizi eravamo indecisi, l’intero campo delle idee umane, della moralità e della religione, tra cui potevamo scegliere.
Queste sono state le fonti delle forze, delle idee, delle emozioni e dello spirito che per prime si sono fuse nei nostri Dodici Passi per il recupero. Alcuni di noi agiscono bene, ma non appena alcuni divennero sobri, le vecchie forze iniziarono a riaffiorare in noi persone piuttosto fragili. Erano temibili, le vecchie forze: la brama di denaro, di plauso, di prestigio.
Queste forze ci avrebbero divisi? Inoltre, provenivamo da ogni ceto sociale. Presto iniziammo a essere un campione di tutti gli uomini e le donne, tutti condizionati diversamente, tutti così diversi eppure felicemente così simili nella nostra parentela di sofferenza. Potevamo mantenerci uniti? Per quei pochi rimasti che vissero quei primi tempi, quando le Tradizioni venivano forgiate nella scuola della dura esperienza sulle sue migliaia di incudini, ebbero momenti molto, molto oscuri.
Era certo che il recupero fosse in vista, ma come poteva esserci recupero per molti? O come poteva il recupero durare se fossimo caduti in controversie e quindi in dissoluzione e decadimento?
Ebbene, lo spirito dei Dodici Passi che ci ha liberato da una delle ossessioni più spietate conosciute – ovviamente, questo spirito e questi principi di conservazione della grazia dovevano essere i fondamenti della nostra unità. Ma per diventare fondamentali per la nostra unità, questi principi dovevano essere esplicitati come si applicavano ai problemi più prominenti e dolorosi.
Così, dall’esperienza nacque la necessità di applicare lo spirito dei nostri passi alle nostre vite di lavoro e convivenza. Queste furono le forze che generarono le Tradizioni di Alcolisti Anonimi.
Ma dovevamo avere più che coesione. Anche per la sopravvivenza, dovevamo portare il messaggio e dovevamo funzionare. In effetti, questo era diventato evidente negli stessi Dodici Passi, poiché l’ultimo ci esorta a portare il messaggio. Ma come avremmo portato questo messaggio? Come avremmo comunicato, noi pochi, con quelle miriadi che ancora non sanno? E come sarebbe stata gestita questa comunicazione? Come potevamo fare queste cose? Come potevamo autorizzarle in modo che in questo nuovo, intenso focus di sforzo ed ego non fossimo nuovamente frantumati dalle forze che un tempo avevano rovinato le nostre vite?
Questo era il problema del Terzo Legato. Dalla vitale chiamata del Dodicesimo Passo, su attraverso la nostra fratellanza, fino alla sua culminazione oggi. E, ancora, molti di noi dissero: “Questo non può essere fatto. Va bene che Bill e Bob e alcuni amici istituiscano un Consiglio di Amministrazione e ci forniscano qualche letteratura, si occupino delle nostre relazioni pubbliche e facciano tutti quei compiti per noi che non possiamo fare da soli. Questo va bene, ma non possiamo andare oltre. Questo è un lavoro per i nostri anziani, per i nostri genitori. Solo in questa direzione può esserci semplicità e sicurezza.”
Poi arrivò il giorno in cui si vide che i genitori erano sia fallibili che deperibili e l’ora del dottor Bob scoccò e improvvisamente realizzammo che questo ganglio, questo vitale centro nervoso del Servizio Mondiale, avrebbe perso la sua sensazione il giorno in cui la comunicazione tra un Consiglio di Amministrazione sempre più sconosciuto e voi si fosse interrotta. Nuovi legami dovevano essere forgiati. E a quel tempo molti di noi dissero: “Questo è impossibile, è troppo difficile. Anche nel gestire gli affari più semplici, fornire i servizi più basilari, raccogliere le somme minime di denaro, queste eccitazioni per noi, in questa società così intenta alla sopravvivenza, sono state quasi troppo a livello locale. Guardate le nostre risse nei club. Mio Dio, se abbiamo elezioni a livello nazionale e i Delegati vengono qui e guardano la complessità – migliaia di rappresentanti di gruppo, centinaia di membri di comitato, decine di Delegati – mio Dio, quando questi discendono sui nostri genitori, gli Amministratori, cosa succederà allora? Non sarà semplicità: non può esserlo. La nostra esperienza lo ha chiarito.”
Ma c’era l’imperativo, il dovere, e perché c’era un imperativo? Perché era meglio avere un po’ di confusione, un po’ di politica, piuttosto che il collasso totale di questo centro.
Quella era l’alternativa e quello era il terreno incerto e tenue su cui la Conferenza del Servizio Generale fu chiamata a esistere.
Azzerdo a dire che, nella mente di molti e a volte nella mia, la Conferenza potrebbe essere simboleggiata da una grande preghiera e una flebile speranza. Questo era lo stato delle cose dal 1945 al 1950. Poi arrivò il giorno in cui alcuni di noi andarono a Boston per osservare un’assemblea eleggere con due terzi dei voti o a sorte un Delegato. Prima dell’assemblea, consultai tutti i politici locali e quei saggi irlandesi a Boston dissero: “Stiamo per avverare la tua previsione, Bill, ci conosci temperamentalmente, ma diremo che questa cosa funzionerà.” Questa fu la notizia più grande e una delle più potenti rassicurazioni che ebbi fino a quel momento che questi servizi potessero sopravvivere.
Ebbene, ha funzionato e abbiamo superato un’altra impossibilità. Non solo abbiamo superato l’impossibilità, ma l’abbiamo talmente trascesa che in futuro non ci potrà essere ritorno alle vecchie incertezze, qualunque pericolo possa arrivare.
Ora, come abbiamo visto in questa rapida rassegna, lo spirito dei Dodici Passi è stato applicato in termini specifici ai nostri problemi di vivere e lavorare insieme. Questo ha sviluppato le Dodici Tradizioni. A loro volta, le Dodici Tradizioni sono state applicate a questo problema di funzionare a livelli mondiali in armonia e unità. (10° GSC, aprile 1960)
41D – Se un alcolista arriva a una riunione di A.A. sotto l’effetto dell’alcol, come lo trattate durante l’incontro?
41R – I gruppi di solito vanno in confusione su questo tipo di domanda. All’inizio siamo portati a dire che saremo superuomini e salveremo ogni ubriacone della città. Il fatto è che molti di loro semplicemente non vogliono smettere. Vengono, ma interferiscono pesantemente con la riunione. Poi, essendo ancora piuttosto intolleranti, il gruppo oscillerà all’estremo opposto e dirà: “Niente ubriachi a queste riunioni”. Diventiamo risoluti e li cacciamo dall’incontro, dicendo: “Sei il benvenuto qui se sei sobrio”.
Ma la regola generale nella maggior parte dei luoghi è che se una persona viene per la prima o la seconda volta e riesce a stare seduta tranquillamente durante la riunione, senza creare scompiglio, nessuno la disturba. D’altra parte, se è un cronico “ricadente” e disturba gli incontri, lo accompagniamo gentilmente fuori – o forse non così gentilmente – basandoci sul principio che non si può permettere a un singolo di ostacolare il recupero degli altri. La teoria è: “Il maggior bene per il maggior numero”. (Yale Summer School of Alcohol Studies, giugno 1945)
Come in tante cose, specialmente per noi alcolisti, la nostra Storia è il nostro Bene Più Prezioso! Ognuno di noi è arrivato alla porta di AA con un’intensa e lunga “Storia di Cose Che Non Funzionano”. Oggi, in AA e nella Recupero, la nostra Storia si è arricchita di un’intensa e lunga “Storia di Cose Che FUNZIONANO!” E non rimpiangeremo il passato né vorremo chiuderci la porta alle spalle!
Continua a tornare!
Un giorno alla volta!
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