AVANTI! SII ANCHE TU FELICE

Settembre 1967 – AA Grapevine
Storia dal Grande Libro – Aggiornamento

Questo articolo è di E.B. “Bob” R., autore di una delle storie personali nella seconda edizione riveduta del Libro Grande di Alcolisti Anonimi. Pubblicato per la prima volta nel 1939, una versione ampliata e rivista uscì nel 1955. Dodici anni dopo, l’autore di “Chi perde la sua vita” (pagina 540 della seconda edizione) guarda indietro a più di vent’anni di sobrietà.

AVANTI! SII ANCHE TU FELICE

Vent’anni dopo? Sobrio, un giorno alla volta, per vent’anni? Una volta mi sarebbe sembrata una condanna insopportabile. In retrospettiva, questi anni sono stati così pieni, così felici, così ricchi di realizzazione che nessuno di quei settemilatrecento giorni è mai bastato. E sono stato felice – non in modo frivolo o ostinatamente allegro – ma felice nel profondo. Una felicità così radicata da resistere agli occasionali colpi di rabbia, frustrazione, impazienza e stanchezza estrema che un tempo mi avrebbero spinto verso la più vicina e rapida fuga alcolica.

Quindici anni fa scrissi la mia storia per il Grande Libro. Dissi di appartenere a quella corrente di pensiero che ritiene che un’adesione riuscita in AA, un’adesione rilevante, che non è semplicemente l’astensione dall’alcol, ma una trasformazione interiore autentica, ci liberi, permettendoci di muoverci nel mondo – per così dire – come chiunque altro. In pratica, questo significa che non sento il bisogno di frequentare costantemente le riunioni. Ci vado quando ho una persona da seguire con il Dodicesimo Passo (non rifiuto mai un Dodicesimo Passo) e nel giorno del mio anniversario. Non mi metto attivamente alla ricerca di persone da aiutare per assicurarmi la sobrietà, ma quando sono in compagnia di nuovi amici o perfino sconosciuti che bevono, spiego sempre perché io non bevo: sono in AA. Un’amica mi ha definito “l’alcolista meno anonimo” che conosca. Questo approccio ha portato diverse persone nella Fratellanza. Suscita domande e un interesse genuino verso quell’”organizzazione senza organizzazione” che è AA. Se l’interesse c’è, racconto brevemente la mia esperienza, sorrido, accetto i complimenti e dentro di me ringrazio per la filosofia che ho abbracciato. Perché sono legato ad AA; è la cosa più certa che conosca. E mi rende felice disperdere speranze nel vento.

Credo anche che i nuovi arrivati, appena un po’ competenti, debbano farsi carico del Dodicesimo Passo. È così che ho guarito me stesso – lavorando costantemente e intensamente al Dodicesimo Passo, in privato, nei gruppi e negli ospedali. Lo feci per anni, con gioia. Ora, quando trovo un nuovo “cliente”, appena possibile lo affido a un membro più giovane di me, offrendogli così l’opportunità di migliorarsi e aiutare a sua volta il nuovo arrivato.

Tengo liquori in casa e li offro agli amici. Non ne desidero nemmeno un goccio. Non è una privazione fare da barista per tutti tranne che per me stesso. Vado ai cocktail party presto e me ne vado presto, prima che gli altri diventino sciocchi, litigiosi e noiosi. Ho già scontato il tempo in cui infliggevo noia agli altri ubriacandomi. A volte, proprio a queste feste, trovo un caso per il Dodicesimo Passo.

Chi mi seguisse nella grande città dove vivo potrebbe pensare che mento o che sono un ipocrita, perché a volte entro in un bar – da solo. La risposta è semplice: dai vecchi tempi so dove sono i bagni e, quando devi andare, devi andare. Le città americane sono notoriamente carenti di servizi igienici pubblici; il posto più probabile è sempre un bar.

Scrivo questi dettagli sperando di rassicurare chi esita a partecipare al primo incontro o a continuare. Per me, entrare in AA non ha significato prendere un voto perpetuo di astinenza davanti a un futuro grigio. Ecco perché esiste il piano delle ventiquattr’ore. Ma anche così, due anni prima di raggiungere la sobrietà in AA, un’amica mi disse di non avvicinarmi più a lei finché non fossi stato sobrio per dieci anni. Urlai: “Preferirei essere morto piuttosto che affrontare un futuro così terribile!” La sua risposta non mi consolò: “Continua così e lo sarai.” Lo sapevo, ma non sapevo che nella sobrietà avrei trovato la libertà più totale, se è possibile definirla così. La libertà di scelta. Vorrei che tutti gli esitanti lo sapessero: non stanno necessariamente accettando una vita di schiavitù, per quanto terapeutica.

Nessuno si dispera perché il suo corpo non tollera le fragole. Ebbene, il mio corpo non tollera l’alcol, tutto qui. Mi è stata rimossa la cistifellea e non posso mangiare uva, ma questo non mi fa contemplare il suicidio. (Per i lettori curiosi: i medici assicurano che il mio passato alcolico non c’entrava nulla.)

Ora, pur frequentando le riunioni solo occasionalmente, uso AA ogni giorno, ogni ora, potrei dire ogni momento di veglia. Lavoro con molte persone e spesso posso aiutarle in vari modi. Grazie ad AA, sono più tollerante e, spero, più comprensivo. Una certa impazienza è diminuita; ci sto lavorando. Il sarcasmo è stato sostituito – almeno nelle intenzioni – dall’arguzia, o forse solo dal buonumore. Spero di essere più facile da sopportare. E, nell’anonimato di questo scritto, confesso una gioia che sfiora l’autocompiacimento nel fare buone azioni, possibilmente anonime. Pensate che alla mia età si possa essere così ingenui? Ah, è davvero più beato dare che ricevere. “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la destra”. Prega in privato. “Getta il tuo pane sulle acque”. Credetemi, è tutto vero. Almeno, lo è per me.

Egoisticamente, il meglio è che sono io al comando. Nessuna compulsione mi spinge ad azioni che non voglio davvero fare, che disapprovo e che so essere sbagliate. Spero di non essere meno umano per essere sobrio, sobrio da più di vent’anni in AA.

I vecchi anni brutti, quelli in cui affogavo nella palude dell’alcolismo, avrebbero potuto essere spesi meglio se non fossi stato intrappolato da questa malattia orrenda. Prima di trovare AA, sette o otto anni se ne andarono – oh, come avrei potuto usarli! Ma non furono sprecati: mi spogliarono di tutto, incluso l’autostima, ma mi prepararono alla felicità degli ultimi vent’anni in AA.

Avanti, amico, unisciti a noi! Sii felice anche tu. Per cambiare la tua vita, ti basta cambiare idea.

E.B.R., Manhattan, N.Y.
Autore di “Chi perde la sua vita” nella seconda edizione di Alcolisti Anonimi.

CHI PERDE LA SUA VITA

Un ambizioso drammaturgo, la cui mente aveva così tanto sorpassato le emozioni da sprofondare in un bere suicida. Per imparare a vivere, rischiò di morire.

Ricordo il giorno in cui decisi di bere fino alla morte, tranquillamente, senza disturbare nessuno, perché ero stanco di essere stato una persona affidabile e degna di fiducia per quasi trentanove anni senza aver ricevuto ciò che consideravo un giusto premio per la mia virtù. Quello fu il giorno, quella fu la decisione che ora riconosco come il momento in cui varcai la linea e diventai un alcolista attivo. O forse, per dirla meglio, in quel giorno, con quella decisione, smisi di combattere il bere come una fuga. Al contrario, lo abbracciai – devo ammetterlo con onestà – con un enorme senso di sollievo. Non dovevo più fingere. Rinunciavo alla lotta. Le cose non andavano come credevo dovessero andare, per la mia felicità, comodità e gloria; quindi, se l’universo non voleva giocare secondo le mie regole, io non avrei più giocato affatto. Io, un uomo d’acciaio, con ideali elevatissimi, ben educato, studente modello, vincitore di borse di studio e premi, un prodigio negli affari – io, Bob, l’autore di questo scritto – guardai e vidi che l’universo era indegno del mio disprezzo, e che l’unico gesto dignitoso rimasto era rimuovermene. Dato che il suicidio forse era un po’ troppo drastico (in realtà, avevo paura), scelsi i dry martini come strumento lento, piacevole, privato e graduale di autodistruzione. E non era affare di nessuno, solo mio. Così credevo.

Nel giro di un mese, la polizia, gli ospedali, diversi estranei gentili, la maggior parte dei miei amici, tutti i parenti stretti e qualche esperto nel derubare ubriachi svuotandogli le tasche erano stati coinvolti. (Ci fu un periodo, di circa tre mesi, in cui compravo un orologio da polso da dieci dollari ogni volta che prendevo lo stipendio – cioè ogni due settimane. Dato che era tempo di guerra, spiegavo al commesso perplesso che avevo molti amici al fronte a cui volevo regalare un orologio. Forse, senza rendermene conto, era vero.)

Quel giorno della decisione, non ammettevo di essere un alcolista. Il mio orgoglioso sangue del Sud avrebbe ribollito se qualcuno mi avesse definito una cosa così spregevole. No, si può riassumere meglio in una frase che coniai e cantavo tra me: “Che fine ha fatto Bob? Bob ha trovato l’alcol!” E dopo averla cantata, ridevo divertito, trasformando l’ironia in disprezzo di me stesso e poi in autocommiserazione, per il triste destino di Bob, quel meraviglioso, povero ragazzino senza madre, così brillante a scuola, cresciuto ad accettare responsabilità troppo presto e troppo in fretta, che aveva sopportato i suoi fardelli senza un lamento finché non aveva deciso di essere troppo buono per questo mondo e quindi di uscirne. Povero Bob!

Questo era un aspetto, ed era vero. Ce n’erano molti altri. C’era la solitudine. La necessità di tenere un lavoro che odiavo, noioso, ripetitivo, svolto insieme a uomini con cui non avevo nulla in comune… fatto per anni, perché i soldi servivano a casa. C’era l’aspetto fisico: essere il più giovane e il più mingherlino della famiglia, dover portare gli occhiali da piccolo e quindi essere preso in giro, essere un secchione annoiato a scuola perché il capitano della squadra di football non sapeva tradurre Virgilio eppure era l’idolo della scuola mentre tu, tu, piccolo gamberetto, eri il cervellone in miniatura, modello precoce.

C’era il padre di cui persi il rispetto a undici anni, perché infranse la sua parola solenne in una circostanza in cui tu, undicenne, avevi assunto la colpa pur essendo innocente, ma lui non ti credeva, non importava cosa dicessi; e per alleviare la sua sofferenza “confessasti” e fosti “perdonato”, salvo poi – mesi dopo – vederti rinfacciare la tua “colpa” (solo lui e tu sapevate di cosa parlava) davanti alla severa nonna. La parola sacra era stata infranta e non ti fidasti più di tuo padre, evitandolo. E quando morì, rimanesti impassibile. Avevi trentacinque anni quando capisti l’angoscia terribile di tuo padre, e lo perdonasti, e tornasti ad amarlo. Perché scopristi che lui era stato colpevole di ciò di cui ti aveva accusato, e la sua colpa aveva portato sofferenza a tutta la famiglia; e credette di vedere in suo figlio l’inizio dello stesso tragico schema.

Tutte queste cose erano pressioni. A trentacinque anni, bevevo già da qualche anno. Le pressioni erano iniziate molto prima. A volte in AA ci dicono di non cercare le ragioni del nostro bere. Ma è nella mia natura volerne conoscere il perché, e non mi fermai finché non fui soddisfatto delle ragioni. Solo che, una volta trovate, le gettai via e ordinai un altro dry martini. Perché accettarle e agire di conseguenza sarebbe stato un colpo troppo duro per il mio ego, che era enorme, in proporzione inversa alla mia statura.

A vent’anni, trovai questi versi di Edna St. Vincent Millay:

Abbi pietà del cuore lento a capire 

ciò che la mente vede a ogni svolta.

Quel distico conteneva gran parte delle ragioni del mio bere. C’era la storia d’amore ridicola – “immagina che quel nanerottolo possa innamorarsi!” – e la mia testa lo sapeva mentre il mio cuore pompava un’angoscia autentica, perché faceva un male infernale, e trattandosi del primo amore, le cose non furono mai più le stesse. C’era l’ambizione smisurata di diventare il più grande scrittore del mondo, quando – a trentanove anni – non avevo nulla di importante da dire. C’era la paura economica che mi rendeva troppo timido per agire e migliorare la mia situazione. C’era il senso di essere “incompreso”, quando in realtà a venticinque anni ero piuttosto popolare, anche se fisicamente non ero cresciuto molto. Ma quel sentimento era una stampella, una scusa. Era il mio “giardino segreto” – in parole povere, la mia ritirata dalla vita, e non volevo rinunciarvi.

Per un po’, per molto tempo, possiamo sopportare che l’intelletto sia più avanti delle emozioni, come suggerisce il distico di Millay. Ma con gli anni, questa distanza diventa insopportabile; e l’uomo con un cervello adulto ed emozioni infantili – vanità, egoismo, falso orgoglio, gelosia, desiderio di approvazione sociale, per citarne alcune – diventa un candidato perfetto per l’alcol. A mio avviso, questa è la definizione stessa dell’alcolismo: uno stato in cui le emozioni non sono cresciute alla statura dell’intelletto. So che alcuni alcolisti sembrano terribilmente maturi, ma credo che stiano solo sforzandosi di convincersi di esserlo, e sia proprio questo sforzo a spingerli a bere – un senso di inadeguatezza, una vanità infantile di essere i più popolari, i più ricercati, i migliori tra i migliori. E tutto questo, ovviamente, è, nel gergo moderno, “compensazione” per l’immaturità.

Vorrei conoscere una scorciatoia per la maturità. Ma io volevo un cosmo, un universo tutto mio che avessi creato e dove regnassi come sovrano assoluto su tutti gli altri. Il che è solo un altro modo per dire che dovevo avere sempre ragione, e solo Dio può esserlo. Va bene, volevo essere Dio.

Lo voglio ancora. Voglio essere uno dei suoi figli, un membro del genere umano. E, come un figlio è parte del padre, così ora voglio essere parte di Dio. Perché, al di sopra di tutto, c’era sempre il terrore della mancanza di significato nella vita. Ora, per me e a mia soddisfazione, conosco lo scopo della vita: lo scopo della vita è creare, e il prodotto collaterale è la felicità. Creare: tutti lo fanno, alcuni a livello istintivo, altri nelle arti. La mia definizione personale, che applico solo a me stesso (ma chiunque può adottarla), include ogni attività umana; avere un atteggiamento creativo verso le cose è un significato più preciso, vivere e relazionarsi agli altri in modo creativo, il che per me significa vedere Dio in loro, rispettarlo e venerarlo. Se scrivo con l’aria di chi ha scoperto l’ovvio, cioè le verità eterne che ci vengono offerte dall’alba dei tempi, perdonate la mia ingenuità; ho dovuto scoprirle da solo. Guai a noi uomini, verso i quali Shaw lanciò il suo grido: “Deve un Cristo essere crocifisso in ogni generazione a beneficio di chi non ha immaginazione?”

Il mio bere compulsivo durò circa sette anni. In quel periodo finii in carcere nove volte, in un reparto per alcolisti due volte (per una notte), e fui licenziato da tre lavori, due dei quali molto buoni. Mentre scrivo queste parole, sembra incredibile che queste cose mi siano successe, perché sono, davvero, contro ogni mio istinto e formazione. (Beh! Stavo per cancellare quest’ultima frase, ma ho deciso di lasciarla. Che rivelazione dell’ego e dell’arroganza che ancora albergano in me – come se a chiunque, a prescindere da istinto e formazione, piaccia finire in galera, in un reparto per alcolisti o essere licenziato. Dopo quasi otto anni di sobrietà in AA, posso ancora scrivere pensieri come “contro il mio istinto e la mia formazione”, dimostrando di considerarmi ancora una persona “speciale”, con diritto a privilegi speciali. Chiedo perdono al lettore; d’ora in poi cercherò di scrivere con l’umiltà che sinceramente cerco di raggiungere.)

Si stabilì un modello. Non sono mai stato un bevitore “degustatore di solitudine”, e non ho mai tenuto una bottiglia in casa. Visitavo un bar dopo l’altro, prendendo un martini in ognuno, sperando ogni volta di trovare qualcuno interessante con cui parlare. In realtà, ovviamente, volevo qualcuno che mi ascoltasse, perché dopo qualche martini diventavo il grande scrittore che sognavo di essere; e l’ascoltatore si beccava teorie altisonanti sulla letteratura e sul genio. Se fosse stato abbastanza ubriaco, la lezione poteva durare per diversi martini, che pagavo volentieri. Se fosse stato ancora sobrio, probabilmente lo liquidavo come un filisteo incapace di apprezzare il genio letterario; e poi passavo al bar successivo in cerca di una nuova vittima.

Fu così che nell’alcol trovai la realizzazione. Per un po’, ero il grande uomo che volevo essere, e che credevo di meritare di essere solo perché ero me stesso. Mi chiedo se ci sia mai stata una ragione più stupida per ubriacarsi continuamente. Quando tornavo sobrio, la mente che era più avanti delle emozioni mi spingeva a chiedere: “Che cosa hai scritto o fatto per essere un grande uomo?” Questa domanda insultava così tanto le mie emozioni che chiaramente c’era una sola cosa da fare: ubriacarsi di nuovo e mettere quella mente indagatrice al suo posto, cioè nell’oblio.

A seconda dello stadio dell’ubriachezza, alla fine o litigavo o mi addormentavo. Sventolando il mio “motto”, che era “Un uomo piccolo con un bastone è uguale a un uomo grande”, a volte alternavo la lezione letteraria a una rissa con un uomo grande, scelto solo perché era grande e io ero piccolo. Porto ancora qualche cicatrice sul viso di quelle risse, che perdevo sempre, perché il “bastone” esisteva solo nella mia mente. Così il ragazzo delle borracce nella squadra di football del liceo cercava di vendicarsi del fratello maggiore che era il quarterback stellare; perché io ero il ragazzo delle borracce e mio fratello il quarterback, innocente di tutto tranne che del fatto di essere un campione.

Quando invece prevaleva il sonno, la mia abitudine era spogliarmi e coricarmi, ovunque mi trovassi. Una volta accadde davanti al Paramount Theatre a Times Square. Ero già in mutande, ignaro di qualsiasi problema, quando arrivò l’ambulanza e mi portò in ospedale, da cui amici preoccupati mi tirarono fuori più tardi quella stessa notte.

Un altro amico, che mi ospitava temporaneamente, mi ricevette alle quattro del mattino dalle mani di un poliziotto che mi aveva trovato “mentre andavo a letto” in un garage lontano dall’ultimo posto che ricordavo di aver frequentato: un elegante bar-ristorante nel quartiere teatrale di New York, dove mi ero rifugiato dopo che la mia accompagnatrice della serata – una graziosa signora del teatro – aveva rifiutato la mia compagnia per ovvi motivi. Quella volta, chi mi aveva derubato si era preso anche gli occhiali (erano d’oro). Quando l’agente mi consegnò al mio amico sbalordito e esasperato alle quattro del mattino, frugai nella mia borsa da viaggio finché non trovai… lascio che sia l’ufficiale a descriverlo: “Ah”, disse il poliziotto, “ne ha un altro paio, grazie a Dio!” Grazie, signor poliziotto, ovunque tu sia ora.

Ho detto che questo amico era il mio ospite temporaneo. Devo aggiungere che era così perché non avevo i soldi per pagarmi un tetto? Eppure, avevo sempre abbastanza fondi per ubriacarmi, perché quello, ovviamente, era più importante che essere autonomo.

Una volta, o anche due, episodi del genere possono sembrare divertenti. Ripetuti anno dopo anno, diventano orribili – spaventosi e degradanti; la cronaca di una tragedia resa ancora più grande dal fatto che chi la viveva, io stesso, sapeva cosa stava accadendo, eppure si rifiutava di fare qualsiasi cosa per fermarla. Uno a uno, gli amici comprensivi si allontanarono. La famiglia, dopo aver aiutato, alla fine disse, al telefono, che non ci sarebbero stati più soldi e che non potevo tornare a casa.

Dico “mi rifiutavo di fermarla”. La verità è che non sapevo come fermarla, né volevo davvero farlo. Non avevo nulla con cui sostituire l’alcol, l’oblio che regalava. Senza alcol, sarei stato davvero solo. Ero forse il tipo sleale che avrebbe voltato le spalle a questo, il mio ultimo e più fedele amico?

Fuggii, infine, dopo essere stato licenziato dal mio lavoro durante la guerra da un capo che pianse un po’ (perché avevo lavorato sodo) mentre mi comunicava di sloggiare. Tornai a casa, a un lavoro manuale, dove per un po’ riuscii a stare lontano dall’alcol. Ma non durò a lungo: per cinque venerdì di fila finii in galera, ubriaco fradicio di birra (che non ho mai amato, ma era l’unica cosa disponibile); cinque venerdì consecutivi in prigione nella città dove ero cresciuto, dove ero stato uno studente modello al liceo, dove uno zio gentile, pagando la cauzione, mi disse: “Bob, la nostra famiglia non fa questo genere di cose.” Io risposi: “Zio, dai dieci dollari al giudice, o dovrò lavorarli sulla strada comunale.” Ero all’inferno. Vagavo, cercando pace, da un luogo all’altro dei miei ricordi felici, e odiavo l’uomo che ero diventato. Promisi sulla tomba di un’amata sorella che avrei smesso di bere. Lo pensavo. Volevo smettere. Non sapevo come. Perché ormai avevo già incontrato AA una volta, ma l’avevo trattata come un vaudeville, portando amici alle riunioni perché potessero divertirsi con la fascinazione della rivelazione nuda della sofferenza e della guarigione. Credevo di essere guarito. Invece, mi ero ammalato ancora di più. Ero mortalmente malato. AA non aveva funzionato per me. La ragione, come capii dopo, era che io non avevo lavorato per AA. Lasciai la mia città natale, allora, dopo essermi reso ridicolo in pubblico davanti a un insegnante che mi aveva stimato e di cui ero stato l’allievo prediletto. Non potevo sopportare di confrontare il ragazzo e il giovane che ero stato con l’uomo spregevole in cui mi ero trasformato.

Tornai nella grande città, per un altro anno di vita precaria, sostenuta in gran parte da uno o due amici che non avevo ancora prosciugato o logorato con le mie incessanti richieste di aiuto. Lavoravo quando potevo – piccoli lavoretti che consideravo insignificanti. Non ero capace di fare di meglio. Passavo davanti al teatro dove, anni prima, una grande attrice aveva interpretato la mia opera. Le avevo persino chiesto dei soldi in prestito, nonostante le sue proteste: “Bob, ti prego, non farmi prestare denaro – sei l’unico che non l’ha ancora fatto.” Li presi comunque; ne avevo bisogno. Finanziai così un’ubriacatura di dieci giorni che segnò la fine della mia dipendenza dall’alcol. Grazie a Dio quei giorni sono passati.

Con un altro piccolo prestito, mi trasferii in campagna a casa di un medico che conoscevo dall’infanzia. Lavorammo a cinque gradi sotto zero, fissando a un olmo un’insegna in ferro battuto che proclamava con modestia la sua professione. Non avevo un soldo – forse solo dieci centesimi – e indossavo gli unici vestiti che possedevo. “Bob”, mi chiese con calma, “vuoi vivere o morire?”

Lo diceva sul serio. Lo sapevo. Non ricordavo molto di quei dieci giorni di sbornia. Ma ricordavo gli anni di agonia che li avevano preceduti, gli anni che avevo buttato via. Avevo appena compiuto quarantasei anni. Forse era ora di morire. La speranza era morta, o così credevo.

Ma risposi con umiltà: “Suppongo di voler vivere.” Lo pensavo davvero. Da quell’istante fino a oggi, quasi otto anni dopo, non ho avuto il minimo desiderio di bere. Scelsi di credere che il Potere più grande di noi stessi, a cui chiediamo aiuto, avvolse il mio corpo tremante in un calore e una forza d’amore che non mi hanno mai abbandonato. Il dottore ed io rientrammo in casa. Lui bevve un sorso di brandy per scaldarsi e mi passò la bottiglia. Io la posai e mi preparai una tazza di caffè. Non ho toccato un goccio di alcol dal 12 gennaio 1947.

Non crediate che sia finita così semplicemente e facilmente. Semplice, sì, perché avevo cambiato idea sull’alcol, e questa decisione è rimasta. Ma negli anni successivi lavorai duramente e con gioia in AA. Nella cittadina vicina c’era un idraulico che aveva provato a fondare un gruppo. Andai da lui e insieme lo riavviammo. Ancora oggi, otto anni dopo, è attivo, e alcuni suoi membri hanno avuto un’influenza positiva nell’organizzazione statale dell’AA. Io stesso ho avuto la fortuna di contribuire. Ho avuto la gioia di vedere molte persone, ai margini della società, rialzarsi e procedere con le proprie forze verso la felicità. Ho compreso il vero significato del pane gettato sulle acque.

Avevo debiti per quasi diecimila dollari da ripagare. Sono quasi estinti; la fine è vicina. Mi è stato concesso di costruire una carriera completamente nuova in un campo in cui non avevo mai lavorato. Ho pubblicato un libro su alcuni aspetti di questo settore, ben recensito e utile ad altre persone. Sono stato nominato docente nella mia vecchia scuola, per insegnare nella mia nuova disciplina. Tutta la mia famiglia, i miei cari, i miei amici, mi sono più vicini che mai; e ho letteralmente dozzine di nuovi amici che dicono di non credere che solo otto anni fa ero un relitto. Quando racconto di essere stato in carcere nove volte e in un reparto per alcolisti due, pensano che scherzi, o che esageri per rendere la storia più avvincente. Ma so che non è così. Ricordo quanto siano orribili le prigioni, quanto sia terribile stare dietro le sbarre. Vorrei che non fossero necessarie; vorrei che tutti fossero in AA, perché se così fosse, secondo me, non ce ne sarebbe bisogno.

Perché sono felice. Credevo di non poterlo mai essere. Un uomo felice difficilmente fa del male a un altro. Il male è fatto da persone malate, come lo ero io, che facevano del male a se stesse e ai propri cari.

Per me, AA è la sintesi di tutta la filosofia che ho letto, di tutta quella positiva, buona, radicata nell’amore. Ho capito che esiste una sola legge, la legge dell’amore, e solo due peccati: il primo è ostacolare la crescita di un altro essere umano, il secondo è ostacolare la propria.

Vorrei ancora scrivere un bel dramma e vederlo rappresentato. Lo farei volentieri in anonimato, come ho fatto con questo breve racconto della mia lotta contro l’alcol – solo per offrire qualche spunto di riflessione. Non mi importa molto della fama o della gloria personale; mi basta avere abbastanza denaro per dedicarmi al lavoro che sento di poter fare meglio. Mi sono fermato a osservare la vita e i valori che vi ho trovato: ho visto il paradosso per cui chi perde la sua vita la ritrova davvero. Più dai, più ricevi. Meno pensi a te stesso, più diventi una persona.

In AA possiamo ricominciare, non importa quanto sia tardi. Io ho ricominciato. A cinquantaquattro anni, si è avverato per me il vecchio desiderio: “Se solo potessi rivivere la mia vita, sapendo quello che so ora.” È quello che sto facendo – vivere di nuovo, con la consapevolezza che ho oggi. Spero di essere riuscito a trasmettervi, lettore, almeno un frammento di ciò che ho imparato: la gioia di vivere, il potere irresistibile dell’amore divino e la sua forza risanatrice, e il fatto che noi, come esseri senzienti, abbiamo la capacità di scegliere tra il bene e il male, e che, scegliendo il bene, troviamo la felicità.

Eppure, non è una felicità statica, non è una conquista definitiva. Ogni giorno è una nuova scelta, una nuova possibilità di cadere o di rialzarsi. A volte, quando vedo un bicchiere luccicare al sole, per un attimo mi torna quella vecchia, familiare bramosia. Ma poi ricordo le celle di prigione, l’odore dei reparti per alcolisti, il vuoto che seguiva ogni ubriacatura. Ricordo anche la prima mattina in cui mi sono svegliato sobrio dopo anni, e ho sentito, con stupore, che la vita poteva ancora sorprendermi.

Non so se riuscirò mai a scrivere quel dramma. Forse non importa. Quello che conta è che oggi posso sedermi alla mia scrivania senza dover fingere di essere un genio, senza dover annegare nel whisky la paura di non essere abbastanza. Posso guardarmi allo specchio e riconoscere, senza vergogna, l’uomo che sono – né un eroe né un miserabile, ma semplicemente un essere umano che ha smesso di fuggire da se stesso.

E se un giorno qualcuno, leggendo queste righe, riconoscerà in esse un barlume di verità, forse avrò servito il mio scopo. Perché alla fine, tutto si riduce a questo: amare, essere amati, e smettere di avere paura.


Indice delle pagine della storia di AA


Come in tante cose, specialmente per noi alcolisti, la nostra Storia è il nostro Bene Più Prezioso! Ognuno di noi è arrivato alla porta di AA con un’intensa e lunga “Storia di Cose Che Non Funzionano”. Oggi, in AA e nella Recupero, la nostra Storia si è arricchita di un’intensa e lunga “Storia di Cose Che FUNZIONANO!” E non rimpiangeremo il passato né vorremo chiuderci la porta alle spalle!

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