Ehi, voi ubriaconi… vi ricordate quando??

Morivamo di polmonite in stanze ammobiliate, dove ci trovavano tre giorni dopo, quando qualcuno si lamentava del puzzo.

Morivamo contro i piloni dei ponti, e nessuno sapeva se fosse suicidio. E forse neanche noi lo sapevamo, se non nel senso che era sempre suicidio.

Morivamo negli ospedali, con lo stomaco gonfio, il fegato dilatato, e loro non potevano fare nulla.

Morivamo in celle, senza mai sapere se eravamo colpevoli o no.

Andavamo da preti e pastori, ci facevano firmare promesse, ci dicevano di pregare, ci dicevano di andare e non peccare più, ma di andarcene. Ci abbiamo provato, e siamo morti.

Morivamo di overdose, morivamo a letto (ma di solito non nel Grande Letto — tutto ciò che l”alcol promette e non mantiene – un’ultima beffa alla ricerca disperata di conforto).

Morivamo in camicie di forza, nei delirium tremens, vedendo chissà cosa, cose striscianti, sgattaiolanti, viscide, trascinate.

E sapete qual era la cosa peggiore? La cosa peggiore era che nessuno credeva mai a quanto ci provavamo.

Andavamo dai dottori e ci davano roba da prendere che ci faceva star male se bevevamo, su un principio così folle che forse avrebbe funzionato, chissà. O forse scuotevano solo la testa e ci mandavano in posti tipo Dropkick Murphy’s (centri di riabilitazione che umiliavano più che curare).

E quando uscivamo, eravamo dipendenti dalle droghe che ci avevano dato. O forse mentivamo ai dottori e loro ci dicevano di non bere così tanto, di bere come loro. E noi ci provavamo, e morivamo.

Annegavamo nel nostro stesso vomito o ci soffocavamo, con le mascelle rotte e bloccate dal filo metallico.

Morivamo giocando alla roulette russa, e la gente pensava che avessimo perso. Ma noi sapevamo che era meglio morire così.

Morivamo sotto gli zoccoli dei cavalli, sotto le ruote dei veicoli, sotto i coltelli e gli stivali dei nostri fratelli ubriaconi.

Morivamo nella vergogna.

E sapete, la cosa ancora peggiore era che nemmeno noi locredevamo, che ci avevamo davvero provato.

Pensavamo di aver solo creduto di provare, e morivamo convinti di non averci provato, convinti di non sapere cosa volesse dire provare.

Quando eravamo abbastanza disperati, o speranzosi, o illusi, o sotto assedio da cercare aiuto, andavamo da persone illustri con lettere dopo il nome e pregavamo che avessero letto i libri giusti, con le parole giuste, senza sospettare la terribile verità: che le parole giuste, per quanto semplici, non erano ancora state scritte.

Morivamo cadendo dalle travi di edifici alti, perché certo, gli operai metallurgici bevono, certo che lo fanno.

Morivamo con un fucile in bocca, o saltando da un ponte, e tutti sapevano che era suicidio.

Morivamo sotto la Southeast Expressway, con le mani legate dietro la schiena e un proiettile nella nuca, perché questa volta le persone che avevamo deluso erano le persone sbagliate.

Morivamo in convulsioni, o per “insulto al cervello” ( un eufemismo dei primi ’900 per indicare emorragie cerebrali, encefalopatie o psicosi causate dall’alcol. I medici usavano questa formula vaga per mascherare la loro impotenza)

Morivamo incontinenti, e nel disonore, abbandonati.

Se eravamo donne, morivamo degradate, perché affondavamo nel medesimo abisso, ma con addosso pietre più pesanti: l’onore della famiglia, la purezza perduta, il silenzio che seppellisce ogni grido.

Ci provavamo e morivamo, e nessuno piangeva. E la cosa ancora più terribile era che per ognuno di noi che moriva, ce n’erano altri cento, o altri mille, che desideravano morire, che si addormentavano pregando di non doversi svegliare, perché quello che stavamo sopportando era intollerabile, e sapevamo nel cuore che non sarebbe mai cambiato.

Un giorno, in una stanza d’ospedale a New York, uno di noi ebbe quello che i libri chiamano un’esperienza spirituale trasformante, e si disse: “Ce l’ho fatta” (No, non ancora, lo hai latto solo in parte) “e devo condividerla” (Ora ci sei quasi!). E continuò a cercare di donarla, ma noi non potevamo sentirla. Ci provavamo, e morivamo.

Morivamo per un’ultima sigaretta, il conforto della sua luce nel buio. Svenivamo e il letto prendeva fuoco. Dicevano che soffocavamo prima che il corpo bruciasse, dicevano che non avevamo sentito nulla. Forse era il modo migliore in cui morivamo, tranne quando portavamo con noi la famiglia.

E l’uomo di New York era così sicuro di avercela fatta, che cercò di amarci fino alla sobrietà. Ma neanche quello funzionò. L’amore confonde gli ubriaconi, e lui ci provò, e noi morivamo lo stesso.

Uno dopo l’altro, gli facevamo sperare e gli spezzavamo il cuore. Perché è quello che facciamo.

E la cosa peggiore era che ogni volta che pensavamo di sapere qual era la cosa peggiore, succedeva qualcosa di ancora peggio.

Finché arrivò un giorno, nella hall di un hotel. E non era a Roma, o Gerusalemme, o La Mecca, o nemmeno Dublino o South Boston. Era ad Akron, Ohio, tra tutti i posti.

Arrivò il giorno in cui l’uomo disse: “Devo trovare un ubriacone, perché ho bisogno di lui più di quanto lui abbia bisogno di me” (SÌ, ORA ci sei!!!).

E la linea di trasmissione, dopo tutti quegli anni, era aperta. La linea di trasmissione era aperta. E ora non andiamo più dai preti, non andiamo dai dottori e dalle persone con lettere dopo il nome.

Veniamo da chi c’è già passato, da chi l’ha già fatto. Veniamo gli uni dagli altri.

Veniamo per provare, e non dobbiamo morire… perché le parole giuste sono state scritte… nel Grande Libro degli Alcolisti Anonimi.

“Ricordo quando quasi morii, la notte del 27 febbraio 1974.”

Amore e pace,
Barefoot


Indice delle pagine della storia di AA


Come in tante cose, specialmente per noi alcolisti, la nostra Storia è il nostro Bene Più Prezioso! Ognuno di noi è arrivato alla porta di AA con un’intensa e lunga “Storia di Cose Che Non Funzionano”. Oggi, in AA e nella Recupero, la nostra Storia si è arricchita di un’intensa e lunga “Storia di Cose Che FUNZIONANO!” E non rimpiangeremo il passato né vorremo chiuderci la porta alle spalle!

ABC del recupero

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Un giorno alla volta!


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